miércoles, 7 de octubre de 2009

Homenaje de Umberto Romagnoli a Gino Giugni



Umberto Romagnoli

In memoria di Gino Giugni (1927-2009)


Una volta, Carlo Donat Cattin raccontò che, completato l’iter legislativo dello statuto dei lavoratori, il presidente del Consiglio in carica continuò a manifestare segni di vita emettendo “angosciosi sospiri”. Questione di carattere. Nella sede della Confindustria, le reazioni non furono altrettanto miti. Non è quindi per un capriccio salottiero che, a rodaggio appena iniziato dello statuto, il suo papà – tutti lo hanno sempre chiamato così – viene invitato ad un convegno di giuristi del lavoro per compiere “un esame di coscienza”. Gino Giugni ci va, lo fa e dice chiaro e tondo: “vorrei che lo facessero anche coloro che continuano a ritenersi giuristi imparziali”.
Secondo un modo di dire che mi piace, ma non posso utilizzare se non di rado, Gino aveva una marcia in più.
Basta gettare uno sguardo sul suo curriculum vitae per ricavarne la sensazione che la Signora Storia stabilì con lui un rapporto più confidenziale che con altri. Nessuno però saprà mai se ciò dipendesse dall’abilità con cui Gino ha saputo corteggiarla con successo o, al contrario, dall’insistenza con cui lei gli si era incollata addosso. E’ un dilemma della medesima natura esistenziale di quello che, secondo Gino, rappresenta il riepilogo della sua biografia: “non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto”. Ma la verità è che, nell’insieme, i suoi dati biografici testimoniano come e quanto il confine tra sfera accademico-scientifica e sfera politica sia mobile e incerto.
Eccezionalmente numerosi, infatti, sono i casi in cui la Signora Storia ebbe bisogno di lui e lo esortò ad agire da protagonista di eventi che appartengono simultaneamente ad entrambe le dimensioni. Sono gli eventi che fanno di Gino un “consigliere del principe” che nei confronti del principe conservava l’indipendenza di giudizio propria del professore, e anzi del “compagno professore”, che non c’è serata di gala offerta da Capi di Stato che possa emozionare quanto il sapore, “l’inarrivabile sapore”, del cesto di limoni e arance che, come Gino scrive in un suo recente libro di memorie, gli donarono i braccianti di Avola dove si era recato col suo ministro, il socialista Giacomo Brodolini prematuramente scomparso.
Per questo, non vide mai messa in discussione la sua onestà intellettuale come giurista prestato alla politica.
Ho sempre sospettato che Gino sottostimasse la possibilità che il suo ruolo di cerniera tra politica attiva e aristocrazia del pensiero fosse idealizzato dalla popolazione accademica. Più esattamente, ho sempre avuto la certezza che non si sia mai sognato di proposi come modello di riferimento. Ciò non toglie che realizzasse le sue performance con tale naturalezza da farle apparire straordinariamente semplici e perciò facili da emulare. Viceversa, soltanto per ingenuità o un auto-inganno è dato supporre che il superamento del test dell’affidabilità sia alla portata di chiunque. E ciò anche perché non basta che il giurista sia disposto a manifestare la sua personalità senza finzioni né astuzie. Occorre anche che il suo rapporto col potere politico si sviluppi su basi visibilmente rispettose della distinzione dei ruoli e a condizione che la stagione politica non sia torbida al punto di farlo degenerare in una fonte di rovinose strumentalizzazioni.
Ad ogni modo, una cosa è certa: la lezione impartita da Giugni ha determinato il tramonto dell’identikit del giurista come tecnico (nel senso di: ragioniere) del diritto caro alla tradizione del ceto degli operatori giuridici ed ha ridisegnato la figura dell’intellettuale d’area giuridica accentuandone l’attitudine a confrontarsi col pragmatismo del decisore politico senza smarrire la vocazione a pensare scientificamente.
Decisore, del resto, sarà lui stesso, in qualità di ministro del lavoro del governo Ciampi. Difatti, l’accordo del 23 luglio 1993, col quale la prassi della concertazione ha compiuto un salto di qualità, porta la sua firma.
Concertazione, si sa, è un brutto neo-logismo che ripropone momenti significativi della storia weimariana da cui nacque il moderno diritto del lavoro e, più che lo sbocco finale di una transizione politico-costituzionale, è la forma evoluta di una ricerca tuttora in corso. Così, è toccata proprio al giurista del lavoro più saldamente convinto che il sindacato dovesse recuperare enormi ritardi quanto ad esperienza di autonomia e libertà la responsabilità di concedergli il viatico per entrare nell’area del potere e del diritto pubblico. Se francamente non posso affermare che il tempo sia stato galantuomo, so però che Gino Giugni aveva fabbricato il quadrante per segnare le ore e i giorni, i mesi e gli anni del suo scorrere. Aveva individuato gli anticorpi che il sindacato deve procurarsi per non farsi catturare. Accreditando l’idea su cui si basa lo statuto di una legislazione promozionale del sindacato senza regolazione legale del soggetto collettivo, aveva ridotto l’eteronomia al minimo storicamente possibile.
Fece, insomma, quel che poteva; poi, è accaduto quel che doveva.

martes, 25 de agosto de 2009

NOTAS SOBRE EL USO (Y EL DESUSO) DEL DERECHO COMPARADO. LAS REGLAS DE ACCIÓN COLECTIVA EN LAS REFORMAS DE FRANCIA E ITALIA 2007-2009




Desgranada la serie en cinco episodios en el blog Según Antonio Baylos, se recoge en este almacén el texto completo del escrito sobre el comparatismo y las reglas de acción colectiva sobre la base de las reformas francesas y, en último término, italianas. Buen verano.




NOTAS SOBRE EL USO (Y EL DESUSO) DEL DERECHO COMPARADO. REFERENCIAS A LAS REFORMAS LEGISLATIVAS EN FRANCIA Y EN ITALIA SOBRE LAS REGLAS DE ACCIÓN COLECTIVA.


Antonio Baylos

UCLM

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1. SOBRE EL COMPARATISMO.

El comparatismo es un método de investigación y una disciplina académica de una cierta tradición en derecho del trabajo. Se recurrió a él de forma ordinaria en el período de formación de sistemas de relaciones laborales democráticos europeos durante los años 50 y 60. En alguna cultura jurídica, como la italiana, tuvo especial relevancia. En España conoció un auge importante en la literatura iuslaboralista de los años 70, pero a partir de la entrada en la CEE ha desaparecido prácticamente de los estudios jurídicos sobre el trabajo, que se vuelcan en el derecho interno o en el análisis del derecho comunitario integrado en el mismo. Son excepcionales las incursiones sobre aspectos concretos institucionales de otros ordenamientos nacionales diferentes al español, en especial sobre el derecho europeo comparado o el derecho norteamericano. Prácticamente inexistentes las referencias a los procesos de cambio y de reformalización democrática de los derechos sociales en América Latina.

Esta ignorancia del dato comparado o su virtual desaparición de los estudios de derecho laboral no está justificada. Se pierde perspectiva de análisis y en cierto sentido se dificulta la comprensión de tendencias regulativas que se propulsan en los países que incorporan modelos de sistemas de relaciones laborales afines al español, o se evita conocer otras líneas de desarrollo en sistemas jurídicos diferentes que abordan sin embargo determinados problemas comunes a los planteados en los nuestros. No tiene sentido además ignorar el dato del comparatismo en un mundo fuertemente globalizado, también en lo jurídico. Hay orientaciones reformistas del campo de las relaciones laborales que incorporan tendencias realizadas en algunos ordenamientos nacionales en concreto y que no necesariamente se “fijan” en las líneas de tendencia de la producción de reglas y normas comunitaria o europea. En algunos casos además estas orientaciones condicionan o predisponen ciertas medidas o directrices provenientes de la Unión Europea, provocando a su vez un nuevo movimiento desde “arriba” que se proyecta sobre el resto de los ordenamientos, como sucedió paradigmáticamente con la “modernización del derecho del trabajo” en el Libro Verde o el debate más duradero sobre flexiguridad.

En concreto estas orientaciones comunes de reforma de la legislación laboral han sido impulsadas en los últimos tiempos desde gobiernos y mayorías parlamentarias conservadoras. Es por tanto importante acceder a las líneas fundamentales que sostienen estos procesos reformistas. El mayor interés no reside sólo en el conocimiento de las medidas sobre la regulación del empleo y del “mercado de trabajo”. En este terreno es sabida la tendencia de base neoliberal a la flexibilización y correspondiente monetización de los derechos de los trabajadores sobre el empleo. En estos supuestos examinar las resistencias y las permanencias normativas es recomendable, para poder fijar un cuadro global del sistema de derechos que garantizan el trabajo.

Hay otros aspectos de las relaciones laborales en las que se descubre una sorprendente coincidencia o convergencia en los planteamientos de reforma. Es de especial interés en este punto la convergencia sobre el área de los derechos colectivos. En este espacio normativo se produce un cierto movimiento de reordenación de las prácticas y estructuras sindicales, y estos procesos condicionan e influyen a su vez sobre la regulación general de las relaciones de trabajo.

2. LAS REFORMAS LEGISLATIVAS EN FRANCIA.

Un caso interesante es el de Francia. El campo de las reformas laborales a partir de la era Sarkozy es posiblemente uno de los elementos más activos de la ideología política de su gobierno, junto con la muy conocida y criticada política represiva y criminalizadora de la inmigración.

En Francia se ha producido en los años 2007-2008 un amplio proceso de reformas laborales. Se deben resaltar tres leyes especialmente. Además de una Ley de huelga en los transportes terrestres de pasajeros, que se llama “del diálogo social y de la continuidad del servicio público regular de transporte de pasajeros” (Ley 2007-1224, de 21 de agosto de 2007 ), se produce a comienzos de enero del 2008 un Acuerdo interprofesional sobre la modernización del mercado de trabajo – que no firmó la CGT – que dio lugar a una Ley del mismo título que recogía ese texto concertado, y que fue recibida como un ejemplo claro de aplicación de la noción de flexiguridad a la francesa (Ley n° 2008-596 de 25 junio 2008 « portant modernisation du marché du travail ») . En esta ley se contienen prescripciones sobre el período de prueba y los contratos temporales, pero ante todo una regulación sobre el despido. En especial la creación del despido acordado con indemnización, que impide el control judicial del acto empresarial, y que en el seminario sobre el despido que organizó la Fundación 1 de mayo fue analizado críticamente por Isabelle Daugareilh en su exposición sobre el régimen legal del despido en Francia . Menos conocida es la Ley 2008-789, de 20 de agosto de 2008, sobre la renovación de la democracia social y la reducción del tiempo de trabajo , que recibe también en su primera parte una “posición común” entre la patronal y los sindicatos CGT y CFDT sobre la reforma de las condiciones de la representatividad sindical que se realizó a mediados del 2008 junto con instrucciones y mecanismos para la derogación del sistema básico de las Leyes Aubry sobre la reducción de la jornada de trabajo a las 35 horas que concitó el rechazo de los sindicatos CGT y CFDT principalmente.

Cabe hacer un examen directo de los contenidos de estos textos legales en el contexto de las relaciones laborales francesas y, desde él, ofrecer algunos puntos de conexión con el análisis de los procesos de regulación en el ordenamiento español, analizando las soluciones concretas que se da el sistema jurídico laboral francés a problemas comunes a ambos ordenamientos.

Pero también se puede examinar este conjunto de reformas en Francia desde un punto de vista más temático, es decir, abordar algunos puntos centrales de las reformas que afectan de manera especial al espacio de la acción colectiva, y que sugieren un hilo conductor no sólo con el debate presente en el ordenamiento español sino posiblemente en el conjunto de sistemas jurídicos europeos comparados. Estos bloques temáticos para suscitar la reflexión a partir de la experiencia francesa serían posiblemente cuatro:

a) La reformulación de las reglas de la representatividad sindical, en el sentido de partir de una situación de representatividad presunta sobre criterios históricos y políticos a una representatividad probada sobre el dato electoral.

b) La revisión del conflicto en los servicios públicos esenciales a través del reforzamiento de los mecanismos de composición y mediación derivados de la autonomía colectiva y la consolidación institucional de los intereses de los usuarios de los servicios como elementos de ponderación del alcance y extensión del ejercicio del derecho de huelga en este sector.

c) La reconfiguración de la articulación de los niveles que estructuran la negociación colectiva mediante la enunciación de una cierta regla de preferencia del convenio de empresa sobre el del sector y mediante la dispositivización de normas estatales hasta el momento consideradas imperativas o de orden público.

d) La construcción del espacio de acción colectiva en la empresa a través de una noción flexible de ésta, más allá de su equiparación con la personalidad jurídica. Se trata, en derecho francés, de la elaboración jurisprudencial de la noción de la unidad económica y social como forma de redefinir y de ampliar los espacios de representación de los trabajadores en los lugares de trabajo.

Por lo tanto, lo relevante de este modo de aproximarse al proceso de reformas laborales en Francia no es el contenido concreto que los textos legales ponen en práctica en el sistema jurídico laboral de ese país, sino la enunciación de un bloque de temas y la orientación que se da a su reconfiguración normativa, para de allí comparar estas experiencias con otras en el panorama europeo y fundamentalmente con la problemática española en términos de políticas del derecho.

3. LA EMPRESA COMO UNIDAD DE NEGOCIACIÓN Y COMO ESPACIO DE REPRESENTACIÓN DE LOS TRABAJADORES.

El sistema de negociación colectiva en Francia tiene sus reglas y contrapesos que ahora no es oportuno abordar. Pero interesa resaltar una tendencia normativa que recoge la articulación de las reglas de relación entre convenios colectivos sobre la base de una “diversificación derogatoria”, entendiendo por tal el establecimiento de la regla de que los convenios de sector son siempre supletorios de los convenios de empresa, en el sentido que éstos pueden regular de forma diferente, contraria o menos beneficiosa los contenidos fijados en el convenio sectorial. Este impulso al acuerdo de empresa o de centro de trabajo constituye un elemento central de la organización de la negociación colectiva en Francia a partir de una Ley de mayo del 2004. La regla se configura directamente en la ley, pero puede ser inactuada mediante una prescripción expresa en la negociación colectiva de sector. Está estrechamente relacionada con la legitimación para negociar y la posibilidad de organizar por los sindicatos disidentes una oposición formalizada que revoque el acuerdo. A su través también se ha abierto jurisprudencialmente una vía para encuadrar los casos de grupos de empresas como unidad de negociación en la medida en que se acoge a este mecanismo “de derogación” expresa.

La posibilidad de “acuerdos colectivos derogatorios” de ciertas disposiciones legales que reglamentan las condiciones de trabajo, se establece de forma acelerada en varias normas a partir de esta fecha, pero normalmente se reserva esta posibilidad a la negociación colectiva de rama. Sobre esta prescripción gravita asimismo la posibilidad de los acuerdos derogatorios de empresa. Destaca especialmente, por su carácter simbólico, respecto de las prescripciones legales sobre la reducción del tiempo de trabajo, la Ley de agosto de 2008. En estos casos, la regulación de horas “suplementarias” más allá de las 35 horas semanales se realiza por acuerdo de empresa o de centro de trabajo y sólo en defecto de estos, por acuerdo sectorial.

Esta forma de organizar el sistema de negociación colectiva se justifica como un impulso decisivo a la negociación colectiva empresarial en sintonía con una fórmula económica de adaptabilidad y de flexibilidad de las condiciones salariales y de trabajo. Como medida de política del derecho, ha sido contestada también desde el punto de vista económico al oponer a este esquema de empresarialización convencional que es el convenio colectivo de sector el que asegura a todos los trabajadores del mismo sus derechos y regula así la concurrencia en el mercado de forma más homogénea, mientras que la derogación descontrolada de estas condiciones salariales y laborales por acuerdos de empresa o de centro de trabajo pueden propiciar fenómenos de dumping.

El debate recuerda al que se produjo en España respecto de las cláusulas de descuelgue de la negociación colectiva. Pero en general, este tipo de tendencia al “auge” de la negociación colectiva de empresa como forma-tipo de la regulación de las relaciones de trabajo, se puede también rastrear en las últimas reformas italianas sobre el mercado laboral y la puesta en práctica de las medidas a través de los convenios de empresa, y, entre nosotros, en la reivindicación de los sectores afines a la CEOE o de la excelencia económica del Manifiesto de los 100 en lo que se llama de forma más neutra, “descentralización” de la negociación colectiva.

Qué pueda haber en estos impulsos de reformulación de las reglas características de organización de los sistemas nacionales de negociación colectiva basados en el convenio colectivo sectorial y su sustitución por un modelo en el que la unidad de negociación dominante es la empresa, reduciendo la finalidad y el alcance de los convenios de rama a acuerdos de encuadramiento, normas supletorias o acuerdos de método de negociación, es el interrogante principal que se plantea. Es evidente que el tema desemboca en las diversas perspectivas con las que se aborda en el debate social y político español la reforma de la negociación colectiva que sobrevuela desde hace tiempo el diálogo social.

Un segundo tema, relativamente relacionado con este en cuanto a la determinación de la figura de empresa, es la construcción de origen fundamentalmente jurisprudencial – a partir de unas sentencias de la Corte de Casación del 2004 y del 2007 – de una noción que permitía redefinir y multiplicar los espacios de representación institucional de los trabajadores, es decir, comités de empresa y delegados de personal, más allá de los conceptos básicos de centro de trabajo o de empresa como sinónimo de persona física o jurídica. Se trata de adecuar el espacio de la representación colectiva a las figuras de interposición laboral y de subcontratación de actividades. La denominada “unidad económica y social” cumple por tanto esta función, basándose en una construcción basada en la unidad de dirección, complementariedad o semejanza de la actividad económica, o comunidad de trabajo entre diferentes empresas – personas jurídicas. Lo que en el derecho español se viene conformando a partir de una reconceptualización del lugar de trabajo como clave para la distribución de espacios representativos respecto de trabajadores puestos a disposición o sujetos a contratas que prestan sus servicios en el mismo lugar que los que dependen de la empresa principal, en el derecho francés se realiza sirviéndose de esta noción jurisprudencial. Las reformas del art. 42 ET que se pusieron en práctica en el 2006 en España, tienen por consiguiente una relación directa con esta noción que busca, según la sentencia de 24 de noviembre del 2004, expresar “la defensa de los intereses de la comunidad de los trabajadores en un perímetro determinado”.

Es interesante señalar que, tanto en el caso francés como en el español, el espacio de representación preservado o reconstruido más allá de la interposición empresarial o de la descentralización productiva, se refiere a las formas de representación unitaria de los trabajadores en la empresa (comités y delegados). No se prevé legalmente una “exportación” de esta ampliación del perímetro institucional de la representación para las secciones y delegados sindicales. La reforma que sobre este punto ha operado la Ley de agosto de 2008 en Francia, que amplía el derecho de formar secciones sindicales y de designar delegados sindicales de las mismas, se sigue moviendo con referencia a una figura clásica de empresa – persona jurídica. Esta disociación de representaciones debe ser también motivo de análisis.

4. LA REFORMULACIÓN DE LAS REGLAS DE LA REPRESENTATIVIDAD SINDICAL.

La Ley francesa de 20 de agosto del 2008, recogiendo una “posición común” entre MEDEF y la CGPM por parte patronal con los sindicatos CGT y CFDT, modifica el sistema de la representatividad sindical en Francia haciendo oscilar el mismo desde una conceptuación nominal o presunta, sobre la base de determinadas circunstancias significantes de la condición de sindicato representativo, a otra más funcional, basada en una representatividad probada o verificada, que se hace depender del hecho electoral y de la concurrencia entre las fuerzas sindicales reconocidas sobre la base del pluralismo. La opción legal parte del sistema vigente y lo hace desembocar en el criterio de la audiencia electoral como elemento definitorio. De esta manera, son criterios para establecer la representatividad sindical los siguientes:

a) Respeto por la legalidad republicana, que es la fórmula actualizada de la clásica “actitud durante la ocupación alemana”, en donde se valoraba el antifascismo o al menos el no colaboracionismo de los sindicatos, y que impidió por consiguiente la presencia de sindicatos afines a fuerzas ultraderechistas o post-fascistas. En concreto el sindicato “Frente Nacional”, fue disuelto por una decisión de la Corte de casación de 1998 que había anticipado este criterio como un requisito para cualquier sindicato más que una condición de representatividad. El respeto a los valores republicanos implica, según la posición común empresarios – sindicatos, “el respeto de la libertad de opinión política, filosófica o religiosa, así como el rechazo de toda discriminación, de todo integrismo y de toda intolerancia”.

b) Independencia frente al empleador, que aunque la ley no lo define, se refiere a la típica prohibición del Convenio 87 de la OIT sobre el sometimiento de los sindicatos, por cualquier medio, al poder patronal así como la creación de éstos por los empresarios.

c) Transparencia financiera, es decir, publicación de las cuentas y balances sindicales y control de las mismas, aunque se trata de un requisito que se debe ponderar en función de los diferentes ámbitos de reconocimiento de la personalidad jurídica de la asociación sindical, puesto que la exigencia de una contabilidad oficial puede constituir para algunas estructuras sindicales una carga muy grande.

d) Antigüedad, es decir una cierta duración en el tiempo que se cifra, de manera muy razonable, en dos años en al ámbito funcional y geográfico referido a la negociación colectiva en la que el sindicato quiera participar.

e) Audiencia electoral, cifrada en un 10 % de los sufragios obtenidos en las elecciones a comités de empresa y delegación única de personal o en su defecto delegado de personal para el ámbito de la empresa, y un 8% de los votos obtenidos en dichas elecciones en el ámbito sectorial de que se trate o, de forma cumulativa, en el nivel interprofesional.

f) Influencia del sindicato, que se traduce en actividad y experiencia del mismo e implantación territorial y funcional, por otro, pero que en último término resultan subsumida en los datos que se derivan de la audiencia electoral.

g) Número de afiliados y cotizantes, en cantidad tal para que se pueda hablar de una presencia real del sindicato y desplegar una actividad autónoma y suficiente para el cumplimiento de sus fines.

La ley por tanto se mueve desde los criterios tradicionales para delimitar la representatividad en Francia a configurar la audiencia electoral medida a través de las elecciones a los organismos representativos del personal como el eje del sistema. Si antes era posible una estimación conjunta de los parámetros de la representatividad, de manera que pudieran compensarse puntos “fuertes” y “débiles” de los mismos en algún sindicato considerado representativo, la Ley de agosto del 2009 exige que estos criterios sean “cumulativos”, es decir, que la cualidad de representativo se otorga a las organizaciones que reúnan todos y cada uno de estos requisitos, por lo que el parámetro de la audiencia es definitivo. De hecho se da un cierto período de transición de dos años para implantar de forma definitiva el nuevo régimen. Durante ese periodo es previsible que se produzcan algunas fusiones sindicales de organizaciones de categoría que tienen difícil superar la barrera electoral, como la Conféderation Génerale des Cadres, o otras residualmente históricas, como la Conféderation Française des Travailleurs Chrétiens (CFTC).

La función de esta reformulación del sistema sindical en Francia está directamente ligada a una institucionalización sindical en la negociación colectiva y el fortalecimiento de la presencia sindical en la empresa. Ambas formas de acción sindical se hacen depender de la superación de un umbral de representatividad fijada sobre la base del voto de los trabajadores a los órganos de representación en la empresa. El umbral es diferente en razón del espacio donde se despliega la representatividad, y es más alto para determinar la representatividad en la empresa que en la rama o en el nivel confederal. La representatividad en la empresa permite formar secciones sindicales y elegir un delegado sindical con plena capacidad negociadora en el ámbito de la empresa o del centro de trabajo. Ello permite hablar de una extensión de las capacidades de acción del sujeto sindical así seleccionado. El sistema tiene por tanto resonancias muy próximas al que está vigente en España, lo que posiblemente le hará ser analizado por los especialistas en esta materia y por los dirigentes sindicales.

La reformulación de las reglas con las que el sistema jurídico institucionaliza el fenómeno sindical trasciende el supuesto francés. Para éste, el encuadramiento del poder de representación está originado por una revalorización de la negociación colectiva como fórmula idónea para vehicular la flexibilidad y la adaptabilidad de las relaciones laborales, en especial en el territorio de la empresa, donde se refuerza la presencia de los sindicatos representativos en el marco de la regulación legal francesa que no requiere una acción unitaria para lograr la eficacia generalizada del convenio. Pero debe quizá ponerse en relación con un movimiento más general que se puede rastrear en varios ordenamientos y que plantea una cierta recomposición de la figura social del sindicato y por consiguiente una nueva composición de la relación entre el ordenamiento jurídico y el reconocimiento de la forma sindical.

Esa tendencia se aprecia especialmente en América. La Confederación Sindical de las Américas (CSA), la regional de la CSI en ese continente, lleva muy avanzado un debate sobre lo que se denomina autorreforma sindical, que en última instancia implica un debate sobre la estructura del sindicato y la representatividad del mismo. En ordenamientos concretos como el argentino, donde la regulación de la representatividad constituía su piedra de toque, recientes fallos de la Corte Suprema de Justicia, ha reformulado de manera radical sus principios fundamentales. El debate en Brasil sobre la “reforma trabalhista” se centra en la configuración de un sindicalismo representativo desde la pluralidad de actores en un contexto de “unicidade”. De manera más básica, el debate en Estados Unidos sobre la Employee Free Choice Act (EFCA), implica la extensión del sindicato en la empresa para la formalización de un convenio colectivo y la previsión de mecanismos eficaces de garantía de la creación de sindicatos en la empresa frente a las actitudes obstruccionistas de los empleadores. En el sistema norteamericano, esta intervención legislativa pretende extender y reforzar la presencia del sindicato y la mejora de los salarios y de las condiciones de trabajo a través de la negociación colectiva. La clave del reconocimiento de la presencia sindical es la posibilidad de contar un referéndum para constituir un sindicato y empezar la negociación de un convenio si el 30% de los trabajadores de la empresa se muestran dispuestos a ello, sin que el empresario pueda negarse a la realización del proceso electoral. Sin embargo, y aunque el proyecto cuenta con el apoyo del Partido Demócrata y del presidente Obama, y ha sido uno de los hechos políticos que los sindicatos norteamericanos han señalado como señal del “cambio de época” tras el cambio presidencial, el neoliberalismo generalizado en la política USA está impidiendo su promulgación. A su paso por el Senado el proyecto ha sido enmendado por varios senadores demócratas para restringir el campo de iniciativa del referéndum para asegurar la presencia sindical en la empresa.

En Europa, posiblemente la reformulación más drástica del sistema sindical es la que se está produciendo en Italia, pero más a través de la ruptura de las reglas que habían regido este sistema – el ordenamiento sindical – que mediante la (re)reglamentación de las facultades de acción de los sindicatos confederales. Sin embargo si se está intentando una intervención normativa directa con finalidades restrictivas en materia de huelga en servicios esenciales, exigiendo, como se analizará en otro lugar, una mayoría de afiliados en el ámbito de convocatoria de la huelga como condición de procedibilidad de la misma, por el momento en el sector de servicios públicos esenciales. Ni que decir tiene que se trata de una iniciativa extraordinariamente autoritaria que se relaciona más con el thatcherismo que con el encuadramiento conservador del poder de representación orientado a la negociación de la flexibilidad y adaptabilidad productiva.

En España, este debate no se plantea desde la perspectiva de los sujetos, puesto que el marco legal de la representatividad sindical está muy asentado y es compartido por los interlocutores sociales. Pero sí se está abriendo desde la perspectiva de la reforma de la negociación colectiva, las unidades de negociación y la articulación de los distintos niveles negociales. Lo más llamativa es sin embargo, el continuado debate endosindical , especialmente en CCOO, sobre la forma de organización de la representación de los trabajadores en la empresa, que parece ir oscilando hacia una primacía del fórmula representativa orgánica-sindical y el vaciado de contenido de los órganos de representación unitarios, limitados a una función de contenedores electorales de las preferencias sindicales de los trabajadores en general. No es el caso ahora de entrar en materia, pero el tema soporta una discusión que tendría que ser ambiciosa sobre el carácter sociopolítico del sindicato y su función institucional de representación general de los trabajadores, de un lado, y de la determinación del lugar donde se sitúa la soberanía del sindicato, que oscila entre los afiliados y los trabajadores. Es un tema que se proyecta en muchos otros aspectos, normalmente ocultos y que no se relaciona con el debate sobre el poder de representación y los espacios de acción del sindicato, como sucede de manera emblemática con la asistencia jurídica que lleva a cabo el sindicato, y en donde se están ya conformando tendencias claras en una de las direcciones señaladas.

5. LA REVISIÓN DEL CONFLICTO EN LOS SERVICIOS ESENCIALES: EL TRANSPORTE COMO TERRENO DE LA REFORMA.

Dentro de una tendencia a la redelimitación de espacios de la acción sindical, es evidente que el tema de la huelga cobra una importancia central. En el ámbito europeo, se ha comentado de manera extensa (y crítica) la jurisprudencia del Tribunal de Justicia en los casos Viking y Laval , que imponían como límite al ejercicio del derecho de huelga en el ámbito supranacional europeo, la ponderación de su eficacia respecto de la libertad de prestación de servicios y la libertad de establecimiento. Pero hay también tendencias muy específicas de (re)regulación en los ordenamientos nacionales europeos del derecho de huelga ejercitado en los servicios esenciales, y en particular, en el sector del transporte como un territorio crucial para la experimentación normativa. Sin perjuicio de otros supuestos de interés, entre los que destaca el inglés, con la reforma que se realiza en la Employment Relations Act del 2004, que lleva a una nueva modificación del denominado Código de conducta sobre las consultas en caso de huelga y preaviso a los empleadores en el 2005 , se mencionan a continuación sólo dos posibles modelos de aproximación a este tema desde visiones políticas conservadoras más recientes. La una, la francesa, intentando compatibilizar el modelo constitucional de reconocimiento del derecho de huelga y su práctica sindical con una institucionalización de mecanismos de mediación y de composición de intereses no solamente bilaterales entre los huelguistas y la administración o empresa afectada. La otra, la italiana, como un proyecto más clásico de reprimir el ejercicio del derecho de huelga y establecer reglas muy rígidas en la administración del conflicto en los servicios esenciales, donde de nuevo el transporte es un sector privilegiado para sugerir la regulación del conflicto en el mismo de forma diferenciada.

A) FRANCIA

Como ya se ha dicho, la regulación del derecho de huelga en el sector del transporte se llevó a cabo en Francia mediante la Ley de agosto de 2007 llamada “del diálogo social y de la continuidad del servicio público regular de transporte de pasajeros” (Ley 2007-1224, de 21 de agosto de 2007). La visibilidad de la huelga en este sector y su evidente influencia en términos de resistencia y de protesta frente a medidas gubernamentales tanto sectoriales (privatización, restructuración del sector) como generales (medidas de reforma del cuadro institucional laboral o de medidas de empleo) hace que sea fundamental para el poder público proceder a un encuadramiento del poder de presión sindical en este ámbito. La ley francesa se aplica sin embargo sólo al sector del transporte terrestre, es decir, fundamentalmente el transporte ferroviario y por carretera, con independencia del carácter público o privado o servicios en concesión que gestionen tales servicios. Se excluye así el transporte aéreo y los servicios turísticos de transporte.

La norma diferencia dos grandes planos. El de las garantías de la proclamación y convocatoria, es decir, los mecanismos de prevención de los conflictos, y el de las garantías ligadas a la continuidad del servicio en caso de huelga. En el primer plano, la remisión a la autonomía colectiva es plena, pero también el acuerdo empresa-sindicatos juega un `papel muy relevante en la determinación del segundo nivel. Las medidas de prevención o de “procedimentalización” de la convocatoria incluyen la necesidad del preaviso (de 5 días), informaciones a los usuarios y a la empresa o asociación empresarial sobre modalidad y duración de huelga, establecimiento de un período previo de negociación o “enfriamiento” del conflicto después de la convocatoria, que no podrá superar los ocho días, y prescripciones clásicas semejantes, incluido el recurso a la mediación. Estas medidas deben necesariamente que ser pactadas en un acuerdo-marco o en un convenio sectorial. Cabe también que se realicen en un acuerdo de empresa, pero desde la perspectiva sindical, el nivel de negociación apropiado es el del sector ante una previsible atomización de las condiciones de proclamación de la huelga que el uso del nivel empresarial llevaría consigo, junto con la pérdida de control sindical del poder de convocatoria. En caso de que las negociaciones no llegaran a un acuerdo, se prevé un Decreto del Consejo de Estado que sustituye al acuerdo, emanado después de un trámite de consulta con los sindicatos y empresarios afectados.

El segundo plano de la regulación de la huelga en este sector es el de las garantías de la continuidad del servicio. Cada empresa debe tener un plan de previsibilidad frente a situaciones de interrupción del servicio – no sólo por causas ligadas al conflicto – que establezca un mínimo a mantener. Y a su vez, se debe pactar con los sindicatos o con la representación unitaria del personal en la empresa un acuerdo colectivo de previsibilidad que fija los servicios de mantenimiento y los trabajadores designados para los mismos en los supuestos de huelga. De no conseguirse este acuerdo, es el empresario quien ejercita el poder de designación en función del plan de transporte.

Además de ello, la norma incluye dos elementos de reforzamiento de los elementos de individualización en la acción colectiva de la huelga que forman parte del imaginario neoliberal del desarrollo de la huelga. La exigencia de que los trabajadores que vayan a adherir a la convocatoria de huelga tengan que manifestarlo previamente a la dirección de la empresa con dos días de anticipación, so pena de ser sancionados si secundan la huelga sin la notificación individual exigida. De esta manera, se crea una nueva obligación de preaviso individual anexa o reduplicada al preaviso colectivo que lleva a cabo el sindicato. El segundo elemento consiste en la posibilidad de organizar una consulta entre los trabajadores sobre la continuidad no de la huelga una vez transcurrido un período de conflicto sin llegar a un resultado final. En la norma francesa, este referéndum es de baja intensidad, puesto que el resultado del referéndum no tiene efectos vinculantes sobre la caracterización de legalidad o ilegalidad de la huelga ni sobre la decisión de continuar la misma. Su importancia simbólica sin embargo está fuera de toda duda, y la propia legitimidad de la acción colectiva se juega en este refrendo al que obliga la norma una vez transcurridos ocho días de huelga en estos sectores sin que se haya puesto fin al conflicto.

El tercer elemento de la norma francesa es la enunciación formal de derechos para los usuarios de la huelga más allá del interés difuso que caracteriza a esta figura. La norma establece derechos precisos de información tanto sobre las condiciones de la huelga y su repercusión sobre la interrupción del servicio, como sobre el plan de transporte que la empresa debe prever en los supuestos de huelga. La ley prevé el resarcimiento de gastos de transporte y abonos si se incumple el plan de preservación del servicio previsto por la empresa e informado a los usuarios.

B) ITALIA

La experiencia de contraste con el caso francés es la iniciativa italiana por el momento en período de discusión legislativa. Se trata de iniciativas en plural, de tipo diverso, que se dan en un contexto de crisis del sistema sindical y de hostilidad declarada del poder público respecto de una estrategia de resistencia social sostenida mediante las luchas sindicales. La primera medida legislativa proviene del gobierno, y se sustancia en un proyecto de ley con importantes atribuciones de ejecución al gobierno que tiene por título “sobre la regulación y prevención de los conflictos laborales con referencia a la libre circulación de las personas” (proyecto de ley nº 1473, de 23 de marzo de 2009). El otro es un proyecto de ley del Partido Democrático que, aunque presentado antes en las cámaras, viene a responder al elaborado por el gobierno y que de forma más directa trata de “Disposiciones para regular el conflicto sindical en el sector de transportes” (proyecto de ley nº 1409, de 25 de febrero de 2009, presentado por los senadores Ichino, D’Alia y otros en nombre del Partido Democrático). En ambos como se ve, la referencia al sector de transportes o, de forma más genérica, a la movilidad y a la libre circulación de las personas, constituye el elemento central. Sin embargo el título del proyecto de ley gubernamental puede inducir a error, porque en su articulado va mucho más allá del supuesto que ha permitido presentar un texto como reacción a las frecuentes huelgas, no hegemonizadas en varios supuestos por las direcciones sindicales confederales, en el sector del transporte y que carecen en muchos casos de acuerdos o decisiones de la Comisión de Garantía para regular su desenvolvimiento. Se trata de un texto que se inserta en la consciente limitación del sindicato mayoritario CGIL para que en solitario pueda desempeñar una labor de presión y de resistencia ante las decisiones gubernamentales a través de la presión en el sector del transporte, dotado de visibilidad social y de eficacia inmediata. En este sentido, la coincidencia entre los dos gobiernos conservadores francés e italiano para amortiguar el conflicto en este sector busca legitimarse en la defensa de la libre circulación de las personas pero realmente persigue la debilitación del movimiento sindical como eje de las protestas sociales.

El proyecto gubernamental italiano implica una revisión en profundidad del sistema creado por la Ley de 1990, reformada diez años después, que regula el ejercicio del derecho de huelga en los servicios esenciales a través de fórmulas de autorregulación convencional bajo la orientación y dirección de una autoridad independiente, la Comisión de Garantía, que controla la red de acuerdos y emite dictámenes de sustitución de los mismos. En el sector de los servicios “que inciden sobre la movilidad o la libre circulación”, los acuerdos de regulación sindical deben incorporar toda una batería de previsiones, desde las relativas a la prohibición de determinadas modalidades de huelga o a la repetición de conflictos en el mismo sector, las fórmulas con arreglo a las cuales se puede exigir a los trabajadores individuales la notificación previa a la empresa de su disposición de adherir a la huelga – aunque en este caso el proyecto italiano es más cauto que el correlativo precepto de la ley francesa ya referido), la previsión de responsabilidades por los daños causados por la desconvocatoria de huelgas ya convocadas, o, en fin, la posibilidad de pactar la huelga virtual, figura ésta ya anticipada en una propuesta del Partido Democrático elaborada por los senadores Ichino y Treu entre otros, de la que se dio cuenta en http://baylos.blogspot.com/2009/02/huelga-para-quien-no-puede-hacer-huelga.html . El proyecto de ley habla de “potenciar” las organizaciones de usuarios y garantizar una buena información a los mismos de las huelgas en este sector, pero en términos bastante más genéricos que los que se ha visto recogidos en la ley francesa de contraste. Además de ello se establece un nuevo régimen de sanciones frente al incumplimiento de los acuerdos y dictámenes de la Comisión en las huelgas en los servicios esenciales – y no sólo en los del transporte – con la previsión de multas pecuniarias a los trabajadores incumplidores, además de un endurecimiento general del régimen previsto en la Ley del 2000, y se transforma la Comisión – ahora llamada de Relaciones Laborales – en un órgano de ejecución política del gobierno. La vis autoritaria del proyecto es clara, pero suscita además preocupaciones añadidas el último párrafo del mismo, según el cual el Gobierno resulta autorizado por esta ley para, en el plazo de un año, redactar, con las modificaciones que estime oportunas, “un texto único en materia de huelga”.

Pero lo que más interesa de este proyecto de ley – cuya inconstitucionalidad es defendida por juristas de renombre, y la Revista de Derecho Social ofrecerá en su número 47 un artículo al respecto de Luigi Ferrajoli – es la imposición de un principio mayoritario en la convocatoria sindical de huelga, complementado con un referéndum consultivo obligatorio entre los trabajadores convocados con altas cotas de mayorías necesarias tanto para convocar el referéndum como para obtener un resultado válido de la convocatoria de huelga. Y es interesante porque en este punto coinciden tanto el proyecto del gobierno como el de la oposición, aunque, naturalmente, desde perspectivas diferentes y con apreciaciones diferenciadas de lo que se debe entender como principio mayoritario.

El proyecto de ley del gobierno de 25 de marzo del 2009 prevé que sólo puedan convocar la huelga en el sector del transporte los sindicatos que alcancen el 50 % de la representatividad del sector. No se dice como se mide esta representatividad, dado que el sistema italiano no ha previsto un criterio de verificación salvo en el sector del empleo público, pero es evidente que el precepto busca impedir que un solo sindicato, por muy representativo que sea en el sector, pueda por si solo ser titular del poder de convocatoria. Si no se reúne esta tasa de representatividad del 50 %, es obligatorio organizar un referéndum entre los trabajadores convocados a la huelga, pero ello sólo lo pueden hacer las organizaciones sindicales que representen el 20 % de los trabajadores del servicio o de la empresa afectada. Por último, la “legitimidad” de la huelga está condicionada a la obtención del 30% de votos favorables del total de los trabajadores afectados por la huelga.

Por su parte el proyecto de ley que presentó el Partido Democrático asimila esta misma idea, pero desde un planteamiento diferente, de manera que se trataría de una norma supletoria del hecho de haber llegado a un acuerdo de regulación de huelga en el sector. Si éste no se ha logrado, el sistema es análogo al que se ha descrito, salvo que la representatividad se mide en los votos obtenidos en las elecciones para las representaciones sindicales de empresa – es decir el criterio de la audiencia electoral – y para la legalidad de la huelga basta con que los votos favorables a la misma superen a los contrarios. De manera más ligera, por consiguiente, el proyecto de la oposición persigue también corporeizar un amplio campo de consensos entre los trabajadores como condición de procedibilidad de la misma, sin que los sindicatos extraconfederales, autónomos o cobas, tengan la titularidad del poder de convocatoria sobre la base de su libertad sindical.

Se consagra por tanto en estas orientaciones legislativas con mayor o menor intensidad un principio de concentración sindical entre los sujetos que pueden lanzar y gobernar la huelga y una cierta expropiación del poder de convocatoria del área de la autonomía sindical a favor de una condición plebiscitaria por parte de los trabajadores. La exigencia de una mayoría absoluta en la representación para que el sindicato pueda convocar la huelga no implica, desde luego, que el trabajador individual esté obligado a secundar la huelga, puesto que siempre queda intacta su facultad para no participar en la medida de conflicto, reducto de la libertad individual inexpugnable. Si a ello unimos la tendencia a la configuración de una obligación –legal en el caso francés, convencional en el italiano – de carácter individual del trabajador de notificar de antemano su adhesión a la huelga, parecería que la vertiente colectiva del derecho se iría disolviendo en una pura concatenación de voluntades individuales de participación en el conflicto que ya no tienen carácter adhesivo a una decisión colectiva normalmente sindical, sino que condicionan y legitiman la misma en sus efectos jurídicos.

La tendencia es común a ambos ordenamientos, pero en el francés no se ha producido esta restricción de los sujetos convocantes sobre la base de la exigencia de un score de representatividad que no se requiere ni para la eficacia de los convenios ni para ningún otro aspecto de la participación institucional de los sindicatos, sino que se prevé el recurso al referéndum consultivo a través de la mediación del acuerdo-marco y en los términos en que éste lo prevea. En el caso de los proyectos de ley italianos, es la norma la que prefigura las condiciones muy rígidas de convocatoria de la huelga y del referéndum para expulsar del área de la legalidad a cualquier sindicato no mayoritario.

C. DESDE ESPAÑA

Analizadas estas líneas de tendencia en materia del conflicto en servicios esenciales desde España, las conclusiones no son muy halagüeñas. Es cierto que el Tribunal constitucional consideró contrarias a la Constitución, ya desde 1981, prescripciones semejantes a las que ahora la ley francesa y la proyectada italiana quieren imponer en materia de restricciones a los sujetos sindicales convocantes y la institución del referéndum como condición de procedibilidad de la huelga. Pero lo cierto es que nuestro sistema de regulación del derecho de huelga en los servicios esenciales es muy autoritario, aunque haya ido evolucionando en gran medida desde la transgresión generalizada de las reglas represivas sobre servicios mínimos copiosos y sanciones a los participantes. La negociación en caliente de las prestaciones indispensables en caso de huelga en los servicios esenciales es una práctica común en nuestro sistema, aunque no haya una norma que la ampare expresamente. La posibilidad de una medida cautelar a los decretos de imposición de servicios mínimos por la autoridad gubernativa ha dado también buenos frutos en el sentido de evitar algunos supuestos de violación evidente del derecho de huelga. Pero no basta y sobre todo, es necesario avanzar en un tipo de regulación que se afiance en la autonomía colectiva y en el diseño de la “esencialidad” del servicio antes de la convocatoria de la huelga en concreto. Un acuerdo de este tipo estaba a punto de ser concluido en Catalunya, pero se han borrado sus trazas. Explorar estas posibilidades, aunque no sean a nivel del Estado, sino experimentando en aquellos espacios regionales en los que el tema esté suficientemente maduro – y Madrid y Catalunya pueden ser una muestra – y en aquellos sectores sobre los que se tenga más interés en preservar la fuerza sindical unida a una garantía de los derechos de los ciudadanos, sería importante para el movimiento sindical.


sábado, 28 de febrero de 2009

PROPOSICION DE LEY SOBRE HUELGA VIRTUAL DEL SENADO ITALIANO


SENATO DELLA REPUBBLICA
———– XVI LEGISLATURA ———–
DISEGNO DI LEGGE n. 1170
d’iniziativa dei senatori ICHINO, TREU, MORANDO, BONINO, ADRAGNA, BLAZINA, BIONDELLI, CECCANTI, GHEDINI, NEROZZI, PASSONI, PERDUCA, PORETTI, ROILO, TONINI
Disposizioni in materia di sciopero virtuale
Presentato alla Presidenza del Senato il 29 ottobre 2008
RELAZIONE
Onorevoli Senatori – Secondo la definizione più aggiornata che ne fornisce la letteratura lavoristica, per sciopero virtuale deve oggi intendersi la forma di agitazione collettiva che un sindacato o una coalizione di altro genere possono scegliere di proclamare in alternativa rispetto allo sciopero tradizionale, soprattutto in un settore di servizi pubblici, al fine di esercitare pressione sulla controparte imprenditoriale in modo diretto, incidendo immediatamente sul suo bilancio, ma senza recare pregiudizio agli utenti del servizio o alla collettività, comunque senza distruzione di ricchezza. A seguito della proclamazione dello sciopero virtuale, i lavoratori che vi aderiscono continuano a svolgere regolarmente le proprie mansioni, rinunciando tuttavia alle rispettive retribuzioni, mentre l’azienda è obbligata a devolvere a un’iniziativa socialmente utile previamente individuata una somma pari a un multiplo dell’ammontare delle retribuzioni stesse. In questa sua versione più sofisticata, la possibilità di praticare lo sciopero virtuale presuppone l’esistenza di un accordo collettivo che lo preveda e ne definisca le modalità di attuazione.Il costo dello sciopero virtuale per il datore di lavoro deve di regola essere determinato dall’accordo collettivo istitutivo, sia esso d’impresa o di settore, mediante la moltiplicazione delle retribuzioni perdute dai lavoratori per un multiplo tale da rendere il costo aziendale dell’agitazione il più possibile equivalente al costo di uno sciopero tradizionale. Va peraltro osservato in proposito che, nel comparto dei servizi pubblici e in particolare in quello dei trasporti urbani, oggi lo sciopero tradizionale sovente produce un costo assai limitato, quando non porta addirittura effetti positivi per il suo bilancio (nel caso assai frequente in cui il servizio è erogato in perdita, essendo prevalentemente finanziato con contributi pubblici); produce invece per gli utenti e l’intera collettività costi sovente del tutto sproporzionati rispetto al valore della controversia.Lo sciopero virtuale è già previsto in alcuni accordi aziendali e contratti collettivi di settore: in particolare quello delle imprese elicotteristiche svolgenti servizi di soccorso (dove è previsto un aumento del versamento a carico dell’azienda pari al 100% e al 200% rispettivamente nel caso di secondo e di terzo sciopero) e in quello dei dirigenti medici e veterinari del Servizio Sanitario Nazionale). Esso è oggetto di studio in Italia da oltre un decennio: il primo scritto di un giuslavorista in argomento, a quanto consta, è quello di Marco Biagi, Sciopero virtuale: ipotesi difficile ma non impossibile, ne “Il Sole 24 Ore” del 13 giugno 1997; negli ultimi anni il tema ha incominciato a essere fatto oggetto di studi giuridici: v. tra gli altri E. Gianfrancesco, Rilievi costituzionalistici in tema di “sciopero virtuale”, in “Massimario di giurisprudenza del lavoro”, 2005, pagg. 324-335; in precedenza, dello stesso Autore, Servizi pubblici essenziali e sciopero virtuale: la prospettiva costituzionale, in “Newsletter CgS”, organo della Commissione di Garanzia, n. 1/2001, pp. 33-36; G. Prosperetti, L’evoluzione dello sciopero virtuale nei servizi pubblici essenziali, nella Relazione sull’attività della Commissione 1o ottobre 2001-31 luglio 2002, Roma, Poligrafico dello Stato, pp. 56-60; A. Topo, Raffreddamento e composizione del conflitto industriale nel settore dei servizi pubblici essenziali, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2004, I, particolarmente pagg. 369-372; Mariella Magnani, Lo sciopero virtuale, in “Newsletter CgS”, n. 1-2/2004, pagg. 3-4; Pietro Ichino, A che cosa serve il sindacato, Milano, Mondadori, 2005, § 68. Da diversi anni la Commissione di Garanzia è mobilitata per promuovere il diffondersi di accordi di questo tipo (v. in proposito la Relazione ai Presidenti delle Camere sull’attività della Commissione nel corso del 2003, del presidente della Commissione di Garanzia Antonio Martone, in “Newsletter CgS”, n. 3/2003, pag. 15, e Mariella Magnani, Lo sciopero virtuale, cit.)È opinione condivisa da tutti gli studi citati che – anche se gli accordi-quadro su questa materia non necessitano di un riconoscimento legislativo per essere validamente stipulati ‑ alla diffusione degli accordi stessi e della sperimentazione di questa forma di agitazione sindacale in sostituzione dello sciopero tradizionale giovi l’emanazione di una legge che esenti da imposizione fiscale ai fini IRPEF le retribuzioni alle quali i lavoratori rinunciano.
All’esigenza menzionata intende rispondere questo disegno di legge.L’articolo 1 del testo legislativo proposto è norma definitoria, necessaria per delimitare con precisione la fattispecie cui si applica il beneficio dell’esenzione contributiva e di quella fiscale per le somme rivenienti dalla trattenuta operata dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori aderenti allo sciopero virtuale. Qui, in particolare, si stabilisce che lo sciopero virtuale e in particolare gli obblighi che ne derivano a carico delle parti del rapporto di lavoro devono essere definiti da un contratto collettivo istitutivo, che può essere stipulato a qualsiasi livello.L’articolo 2 indica invece i molteplici aspetti della nuova fattispecie soggetti alla disciplina dettata dall’autonomia collettiva, dettando in proposito una disciplina di default, cioè applicabile soltanto là dove manchi la disciplina collettiva: in particolare le modalità di proclamazione e attuazione dello sciopero virtuale da parte del prestatore e del datore di lavoro, la destinazione delle somme rivenienti dallo stesso, la possibilità che, all’esito della vertenza, venga disposta mediante accordo aziendale la restituzione parziale o totale delle somme raccolte alle parti interessate.L’articolo 3 prevede l’istituzione presso ciascuna azienda interessata di un fondo al quale affluiscono le somme rivenienti dall’attuazione dello sciopero virtuale. Disciplina inoltre la gestione del fondo affidandola a un comitato composto in maggioranza da rappresentanti dei lavoratori, ma attribuendo al rappresentante del datore di lavoro un potere di veto sulle delibere del comitato circa la destinazione delle somme disponibili, che non rispettino le disposizioni contenute nel contratto collettivo istitutivo o gli accordi aziendali stipulati in proposito. Prevede infine una forma molto snella di soluzione arbitrale delle eventuali controversie concernenti la destinazione delle dette somme.L’articolo 4 prevede l’esenzione fiscale per le somme trattenute al lavoratore aderente allo sciopero virtuale, disponendo tuttavia la cessazione del beneficio in tutti i casi in cui le somme stesse vengano destinate a finalità diverse da quelle previste dal contratto istitutivo. Si ritiene invece opportuno che le somme in questione siano sempre assoggettate a contribuzione previdenziale, in modo che sia in ogni caso assicurata la continuità dell’accantonamento a favore del lavoratore.L’articolo 5 dispone l’azzeramento del periodo di vacatio legis, in considerazione del fatto che la nuova disciplina non comporta alcuna attività preparatoria a carico di amministrazioni pubbliche (salvo l’opportuna pubblicizzazione del nuovo istituto) e produce effetti giuridici rilevanti soltanto a seguito della stipulazione dei contratti istitutivi.

DISEGNO DI LEGGE
Articolo 1 (Contratto collettivo istitutivo e nozione di sciopero virtuale)
1. I contratti collettivi di qualsiasi livello possono attribuire alle organizzazioni sindacali firmatarie la facoltà di proclamare lo sciopero virtuale.
2. Ai fini della presente legge, si intende per sciopero virtuale quello che, senza produrre alcuna sospensione della prestazione lavorativa né alcun pregiudizio alla normale funzionalità aziendale, comporta: a) la cessione, da parte del lavoratore che vi aderisce, del proprio credito retributivo corrispondente alla durata dello sciopero stesso al fondo di cui all’articolo 3; ai fini della determinazione del suddetto credito non si computano gli elementi di retribuzione differita, quali mensilità aggiuntive o trattamento di fine rapporto; b) l’obbligo a carico del datore di lavoro di effettuare il pagamento in favore del fondo di cui all’articolo 3 dell’importo ceduto dal lavoratore, maggiorato di un importo di pari entità, ovvero di entità diversa, come determinata dal contratto istitutivo o dall’accordo aziendale che disciplina la materia.
Articolo 2 (Contenuto del contratto collettivo istitutivo)
1. Il contratto collettivo istitutivo dispone: a) le modalità di proclamazione e attuazione dello sciopero virtuale; b) la destinazione delle somme versate al fondo di cui all’articolo 3 ad iniziative di progresso civile o a scopi di solidarietà sociale, nonché ad iniziative di pubblicizzazione delle ragioni delle parti nella controversia.
2. La destinazione delle risorse del fondo di cui all’articolo 3 rinvenienti da uno sciopero virtuale può essere variata mediante accordo aziendale tra il datore di lavoro e l’organizzazione sindacale che ha proclamato l’agitazione. Quando l’agitazione è proclamata da una pluralità di organizzazioni sindacali, l’accordo aziendale che varia la destinazione delle relative risorse rinvenienti deve essere sottoscritto da tutte le suddette organizzazioni.
3. Salvo diversa disposizione contenuta nel contratto collettivo applicabile, lo sciopero virtuale può essere proclamato da una o più organizzazioni firmatarie, in riferimento alla generalità o a una parte dei lavoratori dell’azienda o del settore.
4. La proclamazione dello sciopero virtuale deve avvenire, mediante comunicazione ai lavoratori interessati e alla direzione aziendale, o all’associazione imprenditoriale di categoria competente quando l’agitazione si riferisca a una pluralità di aziende, con almeno dieci giorni di anticipo rispetto alla data in cui lo sciopero produce gli effetti di cui al comma 2 dell’articolo 1. I lavoratori che intendano aderire allo sciopero virtuale devono darne comunicazione alla direzione aziendale, di regola con almeno sei giorni di anticipo rispetto alla data per la quale esso è proclamato. La comunicazione può essere data in forma scritta, oppure in forma telematica, secondo le modalità che saranno definite mediante apposito protocollo concordato tra l’azienda e le organizzazioni sindacali firmatarie del medesimo accordo.
5. Lo sciopero virtuale può essere proclamato in corrispondenza o meno con la proclamazione, da parte di altre organizzazioni, dello sciopero nella sua forma tradizionale, con relativa astensione dal lavoro.
6. L’adesione allo sciopero virtuale comporta l’accettazione, da parte del lavoratore, di tutti gli effetti derivanti dall’applicazione del contratto collettivo istitutivo, nonché gli effetti derivanti dalla presente legge per quanto non previsto dal contratto stesso.
Articolo 3 (Fondo di solidarietà)
1. Presso la direzione dell’azienda è costituito un fondo, alimentato dai versamenti di cui al comma 2 dell’articolo 1, da effettuarsi mediante accredito su un apposito conto corrente bancario.
2. La gestione del fondo è affidata a un comitato di gestione, composto da a) un membro designato da ciascuna delle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto di cui al comma 1 dell’articolo 1; b) un membro designato dal datore di lavoro, il quale dispone di tre voti qualora le organizzazioni sindacali firmatarie siano almeno quattro, due voti qualora le organizzazioni sindacali firmatarie siano almeno tre, un voto qualora le organizzazioni sindacali firmatarie siano meno di tre.
3. Il comitato elegge al suo interno il presidente, cui compete l’esecuzione delle delibere.
4. Il comitato di gestione delibera, con la maggioranza semplice dei voti espressi dai partecipanti alla seduta, la destinazione delle risorse disponibili, nel rispetto di quanto disposto al riguardo dal contratto collettivo applicabile.
5. Il presidente dà esecuzione alle decisioni del comitato disponendo del conto corrente bancario di cui comma 1, mediante firma congiunta con il rappresentante dell’azienda nel comitato di gestione.
6. Il rappresentante dell’azienda nel comitato di gestione può rifiutare la propria firma sull’atto di disposizione soltanto nel caso in cui esso tenda a finalità differenti rispetto a quelle individuate dal contratto collettivo applicabile. Ogni controversia in proposito è risolta entro trenta giorni con lodo inappellabile da un arbitro unico individuato con le modalità stabilite nel contratto istitutivo o nel contratto aziendale applicabile, oppure, in difetto di disciplina collettiva della materia, designato dal presidente della sezione lavoro del tribunale territorialmente competente, senza altro vincolo di procedura se non quello di sentire, in contraddittorio tra di loro, tutti i membri del comitato di gestione. Le spese dell’arbitrato sono poste a carico del Fondo.
Articolo 4 (Esenzione fiscale)
1. La somma trattenuta al lavoratore che ha aderito allo sciopero virtuale e che viene versata dal datore di lavoro al fondo di cui all’articolo 3 non è soggetta ad imposizione fiscale ai fini IRPEF.
2. Qualora, tuttavia, secondo quanto previsto nell’ultimo comma dell’articolo 2, venga disposta la restituzione della somma suddetta al lavoratore, o comunque la sua destinazione a finalità diverse da quelle stabilite dal contratto istitutivo, essa viene considerata a tutti gli effetti imponibile, oltre che ai fini contributivi, anche ai fini fiscali.
3. Alla copertura dell’onere finanziario conseguente a quanto disposto dal primo comma dell’articolo 4, valutata per l’anno 2009 in 20 milioni di euro, si provvede mediante corrispondente riduzione nel capitolo ** del bilancio dello Stato.
Articolo 5 (Entrata in vigore)
1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

martes, 10 de febrero de 2009

HOMENAJE A ULRICH ZACHERT, AMIGO Y COLEGA ALEMÁN, EN SU JUBILACIÓN

CRÉATION D’EMPLOIS, MARCHÉ DU TRAVAIL ET DROIT DU TRAVAIL :L’EXPÉRIENCE ESPAGNOLE[1].

Antonio Baylos
Université Castilla La Mancha


SOMMAIRE: 1.- La mise en accusation du droit du travail et le processus d’implantation de la flexibilité du travail dans le système espagnol des relations du travail. 2.- Le collectif et l’individuel dans le processus de flexibilisation. 3.- Le changement de cap : la promotion de la stabilité de l’emploi comme politique publique 4.- Les espaces décollectivisés, les sujets faibles. 5.- « Le futur n’est pas derrière nous ». 6.- Les lectures qui accompagnent le voyage.


« J’insiste : la réforme du Droit du travail n’a pas été faite pour valider ou accepter des revendications des entrepreneurs ou des syndicats, mais pour créer de l’emploi. »
José Antonio Griñán Martínez, Ministre du Travail espagnol (1995).

Trente ans après la fin de la transition espagnole vers la démocratie, le rapport entre le droit du travail et le marché du travail constitue un thème récurrent. Ce n’est pas en vain que les juristes du travail européens de la fin du XX ème siècle ont réfléchi à ce sujet. Ce texte concerne l’expérience qu’offre l’ordre juridique espagnol qui est un modèle classique d’un type de relation entre les deux catégories. L’évolution, dans ce contexte, du couple individuel/collectif est un axe des formes régulatrices du travail et de l’emploi.

Le cas espagnol est exemplaire dans un double sens. D’une part, il montre un droit du travail qui est valorisé en fonction de l’évolution du marché du travail et du niveau de postes de travail qu’il permet de maintenir, et ce sans tenir compte de la dimension du travail comme mode d’existence sociale et comme facteur de cohésion sociale. Le travail est en effet l’axe d’attribution des droits basiques de la citoyenneté. D’autre part, il permet d’étudier l’évolution de la relation entre marché du travail et droit du travail, à la manière d’une fable conforme, peut-être, au style des contes moraux de Rohmer, films si appréciés du public français. Le conte moral qui se dessine est plus prosaïque, sa morale plus évidente. C’est le prix d’une narration qui s’adapte à la réalité des faits et non à sa reconstruction idéale, toujours embellie, conformément aux canons idéologiques à la mode qui exigent une fin heureuse.

1.- Mise en accusation du Droit du Travail et processus d’implantation de la flexibilité du travail dans le système espagnol des relations du travail.

Le point de départ est connu. Le système juridique du travail espagnol incorpora dès la première étape de construction démocratique, après la promulgation de la constitution de 1978, un type de relation entre le marché du travail et le droit du travail où ce dernier se soumettait au marché du travail comme élément central de sa structure dynamique normative. La coïncidence entre l’implantation du système démocratique des relations du travail et la crise économique des années soixante-dix, et sa répercussion dans les différentes économies nationales européennes en terme de destruction d’emplois, a produit, dès le début, dans le système espagnol, une relation de cause à effet entre le système de garanties que prévoyait le droit du travail et le processus de perte accélérée de postes de travail, et par conséquent la mise en accusation du droit du travail. C’est vrai que cette mise en accusation intervient dans un contexte de changement de modèle politique, où subsistent des traces de l’« ancien régime », c'est-à-dire des éléments propres aux situations d’autoritarisme social que le franquisme consolida, comme par exemple des garanties étatiques en matière de conditions de travail tant au niveau général qu’au niveau sectoriel. De cette manière, une partie de la culpabilité du droit du travail – sa régulation qualifiée de rigide et d’étatique des conditions de travail – se transmettait à l’ensemble de significations qui n’étaient plus en vigueur dans la modernité démocratique, car elles étaient solidement unies à un monde autocratique, déjà dépassé, et incompatible avec les nouvelles exigences de l’économie libre.

Avec cette stratégie de mise en accusation, le droit du travail subit un changement positif quant à sa justification comme mode de régulation du travail dans la société espagnole démocratique. Il se sépare de la signification purement démocratico-politique du travail réglé dans la Constitution, avec toute sa complexité et son ambivalence dans le cadre de la liberté d’entreprise et de la libre économie de marché, et se déplace vers une valorisation en rapport direct avec la capacité des normes juridiques du travail de se conformer à la situation du marché de travail. Ainsi le droit du travail comme ensemble normatif est légitime dans la mesure où il procure un niveau acceptable ou parfait d’emploi dans le pays. Ceci implique l’hégémonie des politiques publiques d’emploi sur les mécanismes de création du droit du travail. L’efficacité –et la validité– des normes du travail sont mesurées à l’aune de leur impact sur le marché du travail. On exige du droit du travail des résultats économiques par rapport aux objectifs, Cette orientation valorise le droit du travail en terme d’efficacité par rapport à la situation du marché du travail. Par ailleurs, sont mises en question des règles jugées inefficaces ou soupçonnées de freiner l’embauche.

Les conséquences de cette situation sont connues, elles ont déterminé les différentes évolutions du droit du travail espagnol à partir de 1978. La démolition du système basique de protection du travail salarié –le principe de stabilité dans l’emploi– s’appuya sur un nouveau fondement des relations de travail : la flexibilité. De cette façon, on insistait sur la flexibilité externe, c'est-à-dire la rupture du prototype normatif du contrat à durée indéterminée comme formule d’insertion du travailleur salarié dans les activités ordinaires de l’entreprise et son remplacement par des formules temporaires. On évite ainsi les coûts dérivés du licenciement injuste et la garantie judiciaire du droit au travail qui découlait de ce système. En Espagne, à partir de 1979, le processus de flexibilisation s’est imposé pendant vingt ans avec des réformes entêtées, dénommées symptomatiquement, réformes du marché de travail. On sait très bien que ces initiatives n’ont jamais obtenu les résultats escomptés, et les conséquences ont été la hausse du chômage accompagnée d’une fragmentation et d’une précarisation de la population salariée. Avec la foi du meilleur des croyants, les pouvoirs publics se hâtent d’adopter des formules contractuelles temporaires , favorisées par d’importants bénéfices fiscaux, convaincus que l’unique manière de générer de l’emploi est de créer des postes de travail dont la suppression n’aurait aucun coût pour les entreprises. La star de cette politique d’emploi s’appela, de manière cohérente, contrat de promotion de l’emploi, mais dans son titre, ne figurait pas sa caractéristique fondamentale : son caractère temporaire avec un minimum de six mois, susceptible de prorogations successive jusqu’à un maximum de deux ans.

Cette obsession de la flexibilisation est conforme aux efforts des employeurs espagnols pour éliminer le travail stable et le remplacer par du travail temporaire, effet de remplacement qui fut encouragé par des exonérations fiscales. Néanmoins, les avantages attendus de la flexibilisation en terme de répercussions sur le marché du travail et la situation de l’emploi n’ont pas réduit le niveau de chômage qui n’est jamais descendu au-dessous du 15% de la population active et qui a même atteint 22%. Parallèlement, sont apparus une énorme bourse de travail flexible concernant 33% des travailleurs salariés et un marché de travail fractionné en deux grandes collectivités de stables et de précaires, en sachant que le travail flexible touchait surtout les femmes et les jeunes. Le discours de la flexibilisation devenait circulaire et fermé, il continuait à culpabiliser le droit de travail et mesurait sa raison d’être en terme d’efficacité, mais il empêchait aussi de valoriser les mesures de « modernisation » du système normatif du travail, œuvre des gouvernements successifs (soi-disant socialistes) du moment.

2.- Le collectif et l’individuel dans le processus de flexibilisation.

Le syndicat est complètement exclu de ce processus. Peut-être, est-il préférable de dire que, dans l’expérience espagnole, on ne reconnaît pas une dimension collective de la flexibilité. Le mécanisme mis en place par la norme reposait essentiellement sur la description complète du type contractuel –des caractéristiques du travail atypique– et de ses conditions de mise en oeuvre. Or la régulation juridique était concentrée exclusivement sur la dimension contractuelle/individuelle de la relation temporaire créée et dessinée par la norme étatique. Le système se fermait par la prévision d’une tutelle juridique du travailleur individuel face à « l’utilisation déviée » des types contractuels flexibles. Ceci impliquait donc le renvoi à la protection judiciaire de ces droits au travers du prisme de la « fraude à la loi » dans l’embauche temporaire. Cependant, l’action de tutelle de la juridiction du travail a été rapidement rattrapée par la logique autoréférentielle des exigences organisatrices de l’entreprise.

Dans cette politique d’emploi, il n’y a aucune place pour la convention collective comme instance de médiation et de régulation du travail flexible. Dans l’expérience espagnole des années 80, il n’existe aucun échange entre garanties individuelles et collectives, ni remplacement des garanties de la stabilité dans l’emploi assurées par la norme étatique par des règles collectives négociées entre les syndicats et les organisations patronales. Le syndicat –qui, en cette époque historique, bénéficiait d’un processus d’institutionnalisation très marqué dans une situation de grande division entre les deux confédérations les plus représentatives– découvre que son mode d’existence sociale se fracture en deux grandes collectivités. Il est de plus en plus fort dans le groupe des travailleurs stables –hommes majoritairement d’âge mûr– mais perd sa capacité d’implantation dans les strates « d’insertion faible » dans le marché, où s’opère une rotation de jeunes et de femmes du travail précaire au chômage. Le syndicat est conscient de cette fissure et pense pouvoir y remédier. Nier la gravitée des faits est très humain. Le problème posé ne semble jamais si terrible ni la réponse si urgente, même si, paradoxalement, ce qui est en jeu c’est la propre existence du syndicalisme confédéral comme projet unitaire de représentation de la force du travail global, et c’est cette même radicalité du dilemme qui explique une certaine apathie syndicale dans la réponse.

Il est vrai aussi que le syndicalisme espagnol était tout au long des années 80 du dernier siècle divisé. Les liens classiques entre l’Unión General de Trabajadores (UGT) et le gouvernement socialiste ne se dissoudront –et de manière traumatique– qu’en 1988, après l’appel à la grève générale conjoint avec la Confederación Sindical de Comisiones Obreras (CC.OO.) et son succès contre une nouvelle mesure de diminution du coût du travail (des jeunes et des femmes) par la création d’un contrat d’insertion qui a échoué et qui était très semblable à celui qu’au XXIème siècle du contrat premier emploi (CPE) que le gouvernement français avait tenté d’imposer. Depuis, le syndicalisme espagnol agit, de façon unitaire, par l’intermédiaire du dialogue social, sur les conséquences sociales de la précarité et par l’intermédiaire de mesures de correction des types légaux du travail flexible, établissant quelques « précautions » avant son utilisation. La jurisprudence affaiblira cependant ces corrections en assumant dans ses principes interprétatifs la flexibilisation comme manière de gouverner les relations de travail confiée à la décision organisatrice de l’entrepreneur.

La dimension collective interviendra très tard et de manière ambivalente. D’abord, par la voie du dialogue avec le gouvernement, les syndicats imposent une obligation d’information relative aux contrats temporaires au profit de la représentation du personnel. Mais ce contrôle n’est efficace que s’il conduit à une annulation de l’embauche incorrecte, ce qui peut seulement se faire avec l’aide des inspecteurs du travail ou par l’action individuelle du travailleur concerné. L’action des inspecteurs ne fut jamais dissuasive et le déplacement de l’efficacité du contrôle collectif à la réponse individuelle des travailleurs annula toute virtualité pratique à la mesure légale d’information des représentants des travailleurs.

Par contre, l’importante réforme du Statut des Travailleurs, adoptée en 1994 à la quasi-unanimité de tous les groupes politiques représentés au Parlement –excepté Izquierda Unida, permit à la négociation collective de d’encadrer au niveau sectoriel et de l’entreprise les contrats flexibles en fonction de leurs particularités. L’orientation de la réforme était claire et nette. Il fallait fournir aux conventions collectives sectorielles et d’entreprise la possibilité d’établir, compte tenu des intérêts du secteur et de l’entreprise, les limites légales des formes atypiques d’emploi temporaire, spécialement les contrats « classiques » de travail à durée déterminée. On autorisait ainsi, la négociation collective à préciser librement au delà des limites que signalaient les figures légales, les contenus concrets quant à l’extension et la portée de ces contrats « atypiques ». Cet élan vers plus de flexibilité fut suivi de manière significative par une partie des négociateurs, aussi bien au niveau sectoriel qu’au niveau des d’entreprises. La négociation collective développa dans une large mesure, au delà des limites légales, la fragmentation entre travailleurs stables et précaires qui était la base de la réforme du travail de 1994.

3.- Le changement de voie : la promotion de la stabilité du travail comme politique d’emploi.


Néanmoins, le résultat était extrêmement insatisfaisant, aussi bien pour un syndicat incapable d’arrêter une spirale de précarisation des relations du travail que pour un employeur qui commençait à constater les effets dévastateurs d’une évolution où les plus jeunes et qualifiés ne trouvaient pas d’insertion permanente sur le marché de travail et, pour ceux qui avaient intégré une entreprise, aucune possibilité de promotion professionnelle. Et tout ceci dans un contexte économique où le chômage continuait à avoir une présence inévitable dans la rotation et destruction des postes de travail. En effet, même si la situation politique était moins propice, –défaite du PSOE aux élections de 1996 (en grande partie à cause de son attitude antisyndicale deux années auparavant) et formation d’un gouvernement du PP avec une majorité relative– il était raisonnable d’attendre un changement de direction. C’est ce qui arriva avec les très importants accords interconfédéraux de l’année 1997, qui continuent encore à faire débat, fils illégitimes de la tendance de la réforme de 1994 ou, au contraire, changement de voie face aux indications de flexibilité. D’une manière ou d’autre, le conte moral est basé sur les accords entre l’organisation patronale espagnole et les deux syndicats les plus représentatifs au niveau national, des faits qui donnèrent un vrai changement de voie par rapport aux choix des vingt années précédentes.

Les accords de 1997 supposent une récupération de l’autonomie collective et du projet syndical comme axe de la relation entre droit du travail et marché du travail. Dans ces textes –surtout dans l’accord sur la négociation collective et dans l’accord sur la stabilité de l’emploi– la dimension collective est l’élément principal du rapport classique entre travail et emploi, entre la tutelle des droits des travailleurs et la situation du marché de travail. Il se produit un changement de paradigme dans cette correspondance travail/emploi. L’axe de cette relation se canalise maintenant au travers du contrat pour l’encouragement à l’emploi stable, à durée indéterminé, c'est-à-dire un type d’emploi stable qui s’oppose au modèle en vigueur pendant vingt ans de politique d’emploi. Dès lors, la stabilité se configure comme une valeur et non plus comme un problème. Tout au contraire, c’est la solution au problème qui se pose : vouloir lier le volume d’emploi et la création d’emplois à la solidité ou à la fragilité d’un système de garanties des droits des travailleurs. Et il s’agit d’une valeur assumée, partagée, par employeurs et syndicats de travailleurs dans un accord qui propose une bilatéralité obligatoire qui devra se poursuivre dans l’avenir et pas seulement durant les cinq années de validité de ces accords. À partir de 2002, les partenaires sociaux renouvellent ce compromis dans chacun des accords sur la négociation collective qui, chaque année ou tous les deux ans, dans le cadre connu par les Espagnols sous la dénomination de « dialogue social interprofessionnel ».

La dimension collective se fortifie aussi dans cette nouvelle direction des politiques d’emploi à partir d’un projet autonome partagé par le syndicalisme le plus représentatif et le patronat espagnol. La négociation collective devient l’instrument idéal pour favoriser la création d’emplois stables et pour réguler l’emploi atypique au travers d’un pacte assurant une série de garanties d’emploi, spécialement valables lors de la transmission de l’entreprise dans le contexte de la sous-traitance des services, mais aussi dans le recours à des intermédiaires. La négociation collective contribue aussi à élaborer des politiques d’emploi sensibles à la différence de genres, allant même jusqu’à des mesures d’action positive. Elle incorpore également l’âge comme facteur de différences dans le monde du travail. D’autres domaines liés à l’emploi sont attirés par cette force de régulation collective, notamment la formation professionnelle, qui était gérée de manière centralisée par une fondation paritaire soutenue par les pouvoirs publics jusqu’au changement de modèle issu d’une décision du Tribunal Constitutionnel en 2002. Finalement, un système volontaire d’interprétation et d’application des conventions collectives dirigé et organisé par les partenaires sociaux a été créé par un nouvel accord interprofessionnel qui cherche à favoriser tant le règlement extrajudiciaire des conflits que la régulation collective des conditions de travail et d’emploi.

Néanmoins, le changement de voie ne suppose pas d’abjurer les principes de la relation entre système juridique et marché du travail. En effet, l’acceptation de cette nouvelle inflexion de la politique d’emploi mesure son triomphe à l’aune de la progressive diminution des indemnités de chômage à partir de 1997 et de la corrélative création d’emplois. En termes toujours ascendants depuis cette date, il s’est créé plus de trois millions de postes de travail stables en Espagne –avec une tendance à l’accélération après la réforme de la législation du travail de 2006– et le chômage se maintient autour du 8%. Ce phénomène avait pour prix le maintien durant cette même période d’un énorme taux de travail temporaire (31%) qui se réduisait très lentement, ce qui montrait bien que le travail atypique connaissait un développement parallèle et complémentaire à celui de la création d’emplois stables. Plusieurs causes expliquent cette survivance du travail précaire. D’une manière générale, on peut citer l’importance de secteurs comme la construction et le tourisme dans la croissance économique espagnole, mais aussi l’extension de formules de décentralisation organisatrice des entreprises qui culmine par une utilisation généralisée de la location de services comme manière d’externaliser le travail de l’entreprise. De façon plus spécifique, les différentes administrations publiques -gouvernées par la droite politique comme par le centre gauche– ont montré un certain enthousiasme face à la privatisation des services publics par des formules de décentralisation productive, avec la précarisation de l’emploi qui en découle. Ainsi, tandis que la part du travail précaire recule dans le secteur privé, elle augmente, par contre, dans le secteur public jusqu’à atteindre quasiment 25% de l’emploi dans les différentes administrations et organismes publics. De même, l’insertion dans marché du travail espagnol des deux millions d’immigrants durant les quatre dernières années, fait que la forme courante d’emploi pour ce type de travailleurs est un contrat temporaire, mais progressivement renouvelé dans le temps accompagnée d’une fréquente rotation dans les emplois les moins qualifiés. La routine du patronat dans la gestion du personnel et la bienveillance des tribunaux en matière d’utilisation en chaîne des contrats précaires contribuent aussi à ce résultat.

Donc, la vérification des effets des réformes du droit du travail semble découler de manière apodictique du comportement -positif– du marché de travail. La relation est profonde et montre plusieurs continuités entre le raisonnement qui a induit le complexe de culpabilité du droit de travail, accusé d’être un freine à l’initiative économique, à l’investissement et à la création d’emplois. Maintenant le droit du travail se présente de manière plus douce, soi-disant vertueuse. En effet, avec le maintien inaltéré de la manière classique d’adaptation du travail salarié aux besoins permanents de l’entreprise, un type spécial de contrat à durée indéterminée soutenu par des aides et des subventions publiques. Le nouveau contrat de promotion de l’emploi stable apporte avec lui une réduction du montant de l’indemnisation prévu par la loi en cas de licenciement « pour causes objectives » déclaré illégitime par le juge. La réduction est relativement prudente, de 45 jours par année de travail, qui est la formule générale pour le licenciement illicite, à 33 jours avec un maximum de deux ans de salaire, mais elle est plus importante pour ce qu’elle suggère que pour ce qu’elle prescrit. Elle suggère – c’est un non dit de l’accord, mais tout le monde le connaît – que, si dans un futur proche le volume du travail précaire se réduit, la formule de réduction du coût de l’indemnisation du licenciement individuel pourrait se généraliser dans une norme légale du droit du travail. Pourtant, ceci ne s’est pas fait parce que la promesse implicite dans l’accord ne s’est pas accomplie, de façon tout de même ambiguë comme le montrent les données économiques disponibles. Mais surtout, quand, en 2002, la droite politique au pouvoir a voulu avancer dans cette mise en relation entre réduction du coût de licenciement et sa prétendue corrélation, « l’amélioration de l’emploi », en envisageant une réforme qui éliminait des éléments très importants de l’indemnisation du licenciement, la riposte syndicale sous forme de grève générale fit que la loi n’a pas repris une grande partie de ces réductions du coût de licenciement, reculant ainsi sur ce qui avait été établi par décret-loi, postérieurement annulé par le Tribunal Constitutionnel en raison de la violation de la formalité constitutionnelle de l’urgence dans l’adoption de la mesure.

Par conséquent, une certaine solution stable, à partir du « tournant » de 1997, a été trouvée entre le droit de travail et le marché de travail, même si la validité des règles du droit du travail est toujours appréciée en fonction de leur effet sur le niveau d’emploi. Or, cette nouvelle version du problème est très remarquable tant par la présence des formes de contrat à durée indéterminée et par le contrôle de l’utilisation des formes atypiques d’emploi que par l’importance de la dimension collective dans le modèle de cette stratégie et son application concrète. La dimension collective de la régulation du travail et de l’emploi se consolide comme tendance à préserver, tout comme le besoin du dialogue social comme manière de régler les conflits. Ainsi, l’initiative politique de tout gouvernement –et notamment du gouvernement issu des élections de 2004– en matière de réforme de la législation du travail, est conditionnée par l’accord entre les partenaires sociaux, et selon les termes que ceux-ci définissent dans leurs compromis. Les événements traumatiques pour l’économie mondiale –et pour l’économie espagnole en particulier– à partir de l’été de 2008, ne semblent pas avoir altéré l’essentiel de cette conclusion.

4.- Les espaces décollectivisés, les sujets faibles.

Ce processus historique a produit des espaces de régulation où l’on peut constater une inégalité très grande dans les conditions de travail et de vie. Dans le paysage après la bataille, des espaces décollectivisés, peuplés de sujets faibles, apparaissent en raison de l’absence du niveau de tutelle ordinaire ou normale dont bénéficie normalement le travail salarié et qui est rendu obligatoire par notre Constitution. Généralement, on distingue deux grandes espaces de protection nulle.

Le premier est le territoire de la précarité. C’est une condition transversale, qui ne coïncide pas nécessairement avec le caractère temporaire de la relation de travail, mais qui lui est dans une large mesure juxtaposée. Le travail est inaccessible au conflit et à l’action syndicale même si elle est inclue dans l’orbite de la régulation collective, qui commence à généraliser des clauses de garantie et de continuité dans l’emploi. Le travailleur précaire continue à être ancré dans la représentation individualisée de son intérêt. Il se soumet, normalement quand son lien contractuel a disparu, à une tutelle judiciaire de moins en moins incisive.

Le syndicat éprouve de grandes difficultés à agir directement en direction des travailleurs précaires. Il trouve aussi des obstacles et des incompréhensions dans une partie de sa base sociale quand il tente de réunifier les deux collectivités de travail ou au moins de les rapprocher en termes de temps de travail, de salaire et de conditions de travail et d’emploi. La régulation légale en matière de représentation sur les lieux de travail empêche le syndicat de répondre efficacement aux défis que lui posent les déplacements de travailleurs dans le cadre de contrats de location de services et de sous-traitance, les travailleurs mobiles et itinérants, l’intermittence dans la prestation de travail et les autres modes d’organisation de la production qui ne répondent pas au schéma fordiste sur lequel ont été construits les modes de représentation et l’organisation syndicale dans les entreprises. De plus, la précarité s’étend au-delà du travail, dans une dimension territoriale que le syndicat commence à explorer par le développement d’un versant sociopolitique de son action : logement, transports publics, éléments qui sont très communs dans la conflictualité sociale dérivée de ces conditions de vie et où le syndicat envisage de plus en plus fréquemment un nouveau espace d’action.

Le deuxième est le champ du travail non subordonné, les prestations de services qui sont qualifiées juridiquement de travail indépendant et qui donnent lieu au phénomène de « deslaborización[2] », connu comme « fuite du droit de travail ». Même s’il n’atteint pas l’amplitude quantitative du travail précaire, son contenu symbolique est très important, parce qu’il sert la tendance à situer dans la sphère du travail autonome les nouvelles occupations et emplois, avec un certain degré de qualification, que la société de la connaissance ou des services engendre. Dans ces cas, on peut apprécier une incompatibilité radicale entre la protection qu’offre le cadre institutionnel du contrat du travail et la capacité contractuelle créative qui qualifie différemment une prestation de services pour une organisation d’entrepreneurs dans les nouveaux secteurs productifs. Il est normal d’expliquer ces manifestations de « deslaborización » -ou de « réversibilité » de la protection- sur la liberté contractuelle dans un marché de services qui, lui aussi, est libre, mais la réalité des faits est plus complexe et elle questionne l’unilatéralité de l’entreprise dans la détermination du régime juridique applicable à la prestation de services.

Ce phénomène a souffert récemment en Espagne d’un processus de décantation législative avec une norme qui proclame sa condition alternative à la régulation ordinaire du travail pour autrui : le Statut du Travailleur Autonome qui s’oppose au Statut des Travailleurs. Pour les travailleurs autonomes, la norme décrit une espèce, celle de l’autonome économiquement dépendant, dotée d’un régime de tutelle faible dont la garantie individuelle est confiée aux tribunaux. Pour eux, on imagine aussi une dimension collective singulière où des associations professionnelles et syndicats concourent pour cet espace représentatif, et où il se génère des formes de négociation collective ancrées dans le schéma du mandat civil qui refusent donc la force obligatoire et collective de la négociation des conditions de travail de ces autonomes subordonnés. Cette honteuse dimension collective devrait nécessairement être surpassée par l’action syndicale des grandes organisations de travailleurs, mais celles-ci ont besoin encore d’un peu de temps pour reformuler sa stratégie, quant à ces secteurs, qui risque le tout ou le rien de l’inclusion/exclusion dans l’ordre juridique du travail et qui, maintenant, va se développer dans ce territoire ambigu d’une situation de non protection relative de ces travailleurs. La norme privilégie néanmoins la dimension individuelle de cette tutelle à laquelle se juxtapose un schéma pur de représentation civile volontaire. La construction sur cette base d’une vraie dimension collective est prévisible, mais elle sera conflictuelle et en tout cas elle constitue un nouveau champ de jeu inexploré par l’action syndicale.

Le réformisme politique et l’action syndicale doivent ainsi affronter la question de la gestion de ces espaces de non protection où se trouvent des sujets privés des éléments basiques du système de droit du travail, des individus atomisés, dotés seulement de leur capacité personnelle d’agir et éloignés –culturellement et psychologiquement– de l’action collective et solidaire. Ceci nous amène à questionner la fonction que la tutelle du travail et la place que le syndicalisme représentatif et ses formes d’action occupent dans nos sociétés et à incorporer aux préoccupations relatives au travail et à l’emploi un autre type de perspective qui s’exprime en termes d’exigences de vie et de condition de citoyenneté pleine et entière.

5.- Le futur n’est pas derrière nous.

Les contes moraux supposent normalement des fins heureuses ouvertes vers l’avenir. Mais les perspectives sont toujours difficiles et le juriste doit alors assumer les fonctions de prophète ou de voyant. Parfois s’expriment des craintes de démolition ou de ruine du bâtiment normatif et social dénommé « modèle social européen ». Le ton de ces (pré)visions du futur est obscur, on peut même évoquer à la manière d’Umberto Romagnoli un « climat de désespoir et de lamentations ». Il est vrai que pour ceux qui étudient le droit du travail au quotidien, il est difficile de digérer les changements incessants du discours politique depuis les années quatre-vingts du dernier siècle dans l’onde (néo)libérale, avec l’exaltation du marché comme élément de régulation sociale auto referant, la construction de la centralité de l’image sociale de l’employeur créateur de richesse, et la civilisation du bénéfice privé. On peut presque évoquer un certain « syndrome pessimiste » des juristes du travail européens du début du vingt et unième siècle, que certains attribuent à une nostalgie du passé. Comme me disait une historienne et grande amie – récemment disparue – Marisa Loring : «avant, quand nous étions plus jeunes, le futur était plus beau ».

Certes, la pensée conservatrice – qui , comme on le sait, n’est pas seulement patrimoine de la droite politique– aimerait que les juristes du travail s’installent dans un discours ancré pour toujours dans le temps présent. Dans un présent conformiste qui n’admet ni modifications ni transformations dans le futur. Un présent conçu comme destin, parce que tout ce qui aurait pu être changé est déjà changé, il est donc dans le passé, derrière nous.

Par contre, le droit du travail est un constructum qui a seulement un sens s’il s’installe dans un processus de changement permanent qui joue un rôle de stimulation politique des principes de solidarité, égalité et émancipation sociale. Ce sens est aujourd’hui en pleine actualité et suscite des initiatives et des défis à l’action du réformisme politique et au projet de société que soutient le syndicalisme représentatif européen. Une vision démocratique de la société qui se base sur le respect, l’ampliation des droits des travailleurs et la limitation de la richesse et du pouvoir économique sur la base d’un nivellement des inégalités sociales. Les derniers événements de l’été 2008, qui ont montré les doses d’irrationalité et de tromperie dans les mécanismes de financiarisation de l’économie, ne font que confirmer cette manière de voir les processus sociaux. Tout commence aujourd’hui.

6.- Les lectures qui accompagnent le voyage.

Il existe nombre de références doctrinales sur le sujet traité. Ce sont les lectures qui accompagnent le voyage, encore plus indispensables pour un si long voyage. Elles servent parfois à conforter nos positions, parfois à les contraster.

Il est évident que le point de départ de ce travail, l’ « orientation vers l’emploi » du droit du travail et sa « mise en accusation », est partagé –peut être même suggéré – par les travaux d’Antoine. Jeammaud sur ce sujet. Le lecteur intéressé trouvera un bon résumé de cette perspective dans A. Jeammaud, Le droit du travail confronté à l’économie, Dalloz, Paris, 2005, et plus particulièrement « Le droit du travail dans le capitalisme, question de fonctions et de fonctionnement » (ibidem,pp. 15 ss.). Pour unn exposé encore plus articulé de la relation entre droit du travail et marché du travail, voir dans A. Baylos, « Mercado y sistema jurídico laboral en el nuevo siglo », dans G. Gianibelli et O. Zas (coords.), Estudios de Teoría crítica de Derecho del Trabajo (Inspirados en Moisés Meik), Bomarzo Latinoamericana, Buenos Aires, 2006, pp. 63 ss.

Quant au système espagnol, les 80 premières pages du livre de J. Pérez Rey, Estabilidad en el empleo, Trotta, Madrid, 2004, constituent encore aujourd’hui une lecture indispensable pour comprendre, de façon critique, l’évolution normative et les politiques juridiques centrées sur la stabilité de l’emploi comme garantie centrale du travail salarié de 1977 à 1997. Le récit incorpore toute la période du gouvernement d’Aznar, racontant donc les derniers avatars législatifs qui donnèrent lieu à la grève générale de 2002. Il s’agit donc d’un texte qui devrait être lu comme complément au récit fait dans cette contribution.

De manière plus spécifique, l’ère de la flexibilité a produit quelques travaux qui continuent à être utiles au-delà de la connaissance qu’ils donnent du débat tel qu’il se déroulait dans les années quatre-vingts du dernier siècle. Ainsi, le volume dirigé par Mª. E. Casas Baamonde, « Estudios sobre flexibilidad laboral y nuevos comportamientos sindicales », publié par la Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad Complutense nº 14 (monographie), Madrid, 1988, qui incorporait les contenus d’un séminaire italo-espagnol sur le droit du travail très révélateur d’un type de pensée critique des juristes du travail, à l’époque original. Les termes du débat s’appuyaient, dans une perspective justificatrice des réformes législatives, sur les notions de « dérégulation » et la formule canonique de la « flexibilité ». L’étude qui présente de manière plus intelligente – et synthétique – cette question est celle de M. Rodríguez-Piñero, « Flexibilidad, juridificación y desregulación », Relaciones Laborales nº 5 (1987), p. 1 ss ; une version revue qui profite d’autres apports au débat plus directement liés à la pensée économique patronale, dans S. del Rey Guanter, « Desregulación, juridificación y flexibilidad en el derecho del trabajo : notas para la caracterización de un debate », dans J. Rivero Lamas (Coord.), La felixibilidad laboral en España, Universidad de Zaragoza, 1993, pp. 51 ss. Dans ce même volume et dans la même ligne, l’introduction du livre est très révélatrice, sous la plume de son coordinateur, J. Rivero, soue le titre « Política de convergencia, flexibilidad y adaptación del Derecho del Trabajo » (ibidem, pp. 9 ss.). La « voie espagnole vers la flexibilité » a aussi été étudiée sous une perspective comparatiste. Le livre plus intéressant de ce point de vue est celui dirigé par M. D’Antona, Politiche della flessibilità e mutamenti del Diritto del Lavoro : Italia e Spagna, ESI, Napoles, 1990, témoignant du dialogue italo-espagnol sur ces politiques, même s’il ne se limite pas au seul cas espagnol, et aux politiques de réforme des années quatre-vingts en Europe. Encore aujourd’hui, s’avère très stimulante la lecture de l’ouvrage collectif, dirigé par L. Mariucci, Dopo la flessibilità, cosa ?, Il Mulino, Bolonia, 2006.

Suivant le parcours de toutes les initiatives de réforme de la législation du travail en Espagne, celle qui commence en 1994 sous le gouvernement socialiste, contre la volonté des syndicats, a provoqué un grand nombre d’interventions des juristes du travail en Espagne. En plus de la contestation sociale que la réforme apporta, la division entre le mouvement syndical et la gauche politique et le gouvernement et le partit socialiste eut des répercussions sur le débat doctrinal, produisant une rupture politique très nette dans le « juslaborisme » espagnol qui déboucha sur une lutte pour l’hégémonie culturelle. Ce thème se prolongea en 1997 par l’affirmation, surprenante pour beaucoup, d’un espace de dialogue social entre le syndicalisme confédéral et le patronat espagnol, ce qui impliqua un tournant en matière d’emploi et de négociation collective. Dans la production doctrinale des juristes du travail, ce fait apparaît alternativement comme un moment important de récupération de l’action syndicale et de réalisation d’un projet autonome de protection de la stabilité de l’emploi, ce qui implique l’interdiction pratique des éléments de flexibilisation de la réforme de 1994, ou comme la conséquence inévitable de la restructuration des règles qui organisent la relation entre norme étatique, autonomie collective et pouvoir patronal, et par là même la chronique annoncée d’un prévisible développement du dialogue social autour des thèmes centraux de la réforme, c’est-à-dire le marché du travail et la négociation collective.

Cette disparité doctrinale dans ce qui était considérée jusque là comme la doctrine du travail progressiste peut se voir dans l’ouvrage dirigé par F. Valdés Dal-Re, La reforma del mercado laboral, Lex Nova, Valladolid, 1994 –et spécialement dans la contribution de J. Matía, « Sentido y alcance de la reforma de la legislación laboral » (pp.14 ss) dans la monographie de Gaceta Sindical dirigée par A. Martín Aguado, « Reflexiones jurídicas en torno al nuevo modelo de relaciones laborales », GS nº 198, juin 1994. Peu après, quelques travaux unifient dans leurs titres les deux processus de réforme, même si celui dirigé par E. Rojo Torrecilla Las reformas laborales de 1994 y 1997, Marcial Pons, Barcelona, 1997, est, en réalité, un ensemble de textes qui examinent le développement légal et conventionnel à partir de 1994 et incluent un premier regard sur la réforme de 1997. Sur cette réforme, M. Rodríguez-Piñero, « La reforma legislativa anunciada y el Acuerdo Interconfederal para la Estabilidad en el Empleo », Relaciones laborales nº 9 (1997), pp.1 et ss., et Valdés Dal-Re, « La legislación laboral negociada entre la concertación social y el diálogo social », dans le volume La reforma pactada de las legislaciones laboral y de Seguridad Social », Lex Nova, Valladolid, 1997, pp. 23 et ss. Par contre, d’autres écrits qui signalent la césure entre ces manifestations réformistes, présentent une vision très critique de la réforme de 1997, dans le volume édité par l’Asociación Española de Iuslaboralistas, Las reformas laborales de1997, Aranzadi, Pamplona, 1998.

Les événements les plus récents sont l’objet de présentations générales, telles celles de M. R. Alarcón, « Reflexión crítica sobre la reforma laboral de 2001» et C. Palomeque, « La versión 2001 de la reforma laboral permanente », les deux dans Revista de Derecho Social nº 15 (2001), respectivement pp. 5 et 39 ss.. La réforme de 2002 et la grève générale qui s’en suivit unifia une autre fois le regard critique des juristes du travail espagnols, comme on peut le constater dans les interventions réunies sous le titre « Sobre el RDL 5/2002 de 24 de mayo », dans Revista de Derecho Social nº 18 (2002), pp. 235 ss. Quant au dernier élément du processus de réforme du droit de travail , est conseillée la lecture qu’en fait J. Pérez Rey, « El Acuerdo para la mejora del Crecimiento y del Empleo : primeras reflexiones acerca de su contribución a la calidad de trabajo », dans Revista de Derecho Social nº. 34 (2006), pp. 245 ss.

D’autres aspects disséminés tout au long du texte auraient mérité une note, mais seuls quatre points seront retenus. Le premier concerne l’analyse théorique de la signification politique et démocratique de la reconnaissance constitutionnelle du droit au travail. Sur cet aspect, l’article d’Umberto Romagnoli reste éclaircissant « Del derecho del trabajo al derecho para el trabajo », Revista de Derecho Social nº2 (1998), pp. 11 ss. Un deuxième point vise le contrôle juridictionnel du travail temporaire, frauduleux ou simplement illicite, où la jurisprudence espagnole s’est montrée particulièrement inefficace –sinon directement complice- de la mauvaise utilisation des formes contractuelles à durée déterminée L’analyse critique de ce processus et les tendances jurisprudentielles en la matière se trouvent sous la plume de J. Pérez Rey, La transformación de la contratación temporal en indefinida. El uso irregular de la temporalidad en el trabajo, Lex Nova, Valladolid, 2004. Le troisième sujet s’intéresse à l’expression « fuite du droit du travail », expression de Miguel Rodríguez Piñero dans un célèbre article, publié dans Relaciones Laborales, Tomo I, pp. 91 ss., et repris dans un chapitre du livre dirigé par M. R. Alarcón et Mª. M. Mirón, El trabajo ante el cambio de siglo : un tratamiento multidisciplinar, Marcial Pons, Madrid, 2000, intitulé « La « Huida del Derecho del Trabajo » : tendencias y límites de la deslaboralización » (pp. 35 ss.), où nous décrivons les tendances législatives qui ont procédé à l’expulsion de certaines prestations de services du système juridique de tutelle du travail salarié et les limites (relatives) que la jurisprudence constitutionnelle a imposé à ce processus d’exclusion de droits. La littérature sur la nouvelle régulation du travail autonome à partir de la Loi de 2007 est très ample et oscille entre la description de la norme et les prévisions sur ses effets non vérifiables à cause de l’insuffisante expérience des institutions légales créées, spécialement en matière collective. Ulrich Zachert a participé au début de ce débat lors d’une intervention sur « Trabajo autónomo : el ejemplo alemán », publié dans la Revista de Derecho Social nº 22 (2003), pp. 9 ss., mais l’ouvrage le plus important à présent est celui dirigé par Jesús Cruz et Fernando Valdés, El estatuto del trabajo Autónomo, La Ley/Kluwer, Madrid, 2008. En conclusion, l’allusion finale au « climat de désespoir et de lamentations » qui accompagne une grande part de la littérature relative à la précarité et qui est présentée comme une donnée sensible d’une certaine tendance au pessimisme des juristes du travail, elle a pour origine un article d’ Umberto Romagnoli traduit en espagnol, « Y de pronto es ayer (sobre la precariedad de las relaciones laborales) », Revista de Derecho Social, nº 38 (2007), pp. 13 ss.

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[1] Ce travail est basé sur une intervention effectuée durant le séminaire « Dimensione individuale e collettiva del Diritto del Lavoro. Transformazioni dell’ impresa e mercato di lavoro » qui s’est déroulé à la Faculté des Sciences Politiques de l’Université de Bologne, les 24 et 25 septembre 2007, dans le cadre du vingtième anniversaire de la revue Lavoro e Diritto. Ce texte est dédié à mon ami et respecté collègue Ulrich Zachert, qui appartient à l’élite des juristes européens du travail et qui, par sa capacité de recherche, sa lucidité académique et son sens du compromis social et politique, a toujours été un exemple pour l’équipe de recherche de l’Université de Castilla La Mancha.
[2] Littéralement, ça signifie “perte de la condition de salarié ».