miércoles, 4 de abril de 2007

ANTONIO GRAMSCI

FILOSOFIA DELLA PRAXIS

Il concetto di 'prassi', come agire individuale e sociale, è al centro di tutta la filosofia inaugurata da Karl Marx e del suo modo di affrontare i problemi della produzione e della scienza. Nei cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844, che Gramsci non ebbe la possibilità di conoscere, Marx scriveva: «... come la società... produce l'uomo in quanto uomo, così essa è prodotta da lui» (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 in Marx-Engels, Opere, III, Roma 1976, pp. 324-325). Questa idea per cui la 'produzione' o 'prassi umana' è comprensiva non solo del lavoro ma anche di tutte le attività che si oggettivano in rapporti sociali, istituzioni, bisogni, scienza, arte ecc., traversa tutto il pensiero di Marx e costituisce il suo principio fondamentale.
Antonio Labriola ha sviluppato questo aspetto, sostenendo che il materialismo storico «parte dalla praxis, cioè dallo sviluppo della operosità e, come è la teoria dell'uomo che lavora, così considera la scienza stessa come un lavoro» (A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Bari 1965, p. 233). Per Labriola «ogni atto di pensiero è uno sforzo; cioè un lavoro nuovo», mentre «il lavoro compiuto, ossia il pensiero prodotto, agevola i nuovi sforzi diretti alla produzione di novello pensiero» (ivi, p. 215).
Questa premessa serve a dimostrare che il termine 'filosofia della prassi', di cui parla Gramsci, non è un espediente linguistico, ma una concezione che egli recepisce come unità tra teoria e pratica.
Discutendo la Tesi XI di Marx, che propone di cambiare il mondo e non più di interpretarlo, Gramsci scrive che tale tesi non può essere interpretata come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia», ma come «l'egemonica affermazione di unità tra teoria e pratica... Se ne deduce anche che il carattere della filosofia della praxis è specialmente di essere una concezione di massa, una cultura di masse» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino 1975, pp. 1270-71). E altrove ripete: «per la filosofia della praxis, l'essere non può essere disgiunto dal pensare, l'uomo dalla natura, l'attività dalla materia, il soggetto dall'oggetto; se si fa questo distacco si cade in una delle tante forme di religione o nell'astrazione senza senso» (ivi, p. 1224).
L'unità di teoria e di pratica serve a Gramsci per delineare una serie di concetti scientifici in grado di interpretare il mondo a lui contemporaneo (egemonia, blocco storico, nuovo senso comune, conformismo di massa nel suo nesso con nuove forme di libertà individuali e collettive, rivoluzione passiva, ecc.). Qui, in sede generale, in relazione alla filosofia della prassi ci limiteremo alle seguenti considerazioni:
l) Né la filosofia della prassi né alcuna scienza a essa collegata ci consentono di fare previsioni che abbiano carattere deterministico.
C'è un unico modo possibile di prevedere, ed è quello per cui esso è un atto pratico che implica la formazione e la organizzazione di una volontà collettiva. Da questa tesi Gramsci ricava la sua critica a Croce, in quanto la sua religione della libertà non contribuisce a creare risultati prevedi bili, evitando di formulare un disegno di trasformazione e una volontà politica che a esso corrisponda. Questa stessa teoria della 'previsione' mette in crisi le concezioni deterministiche tipiche dello scientismo della II Internazionale, che sono anch'esse fonte di passività.
2) Le volontà di cui parla Gramsci e, quindi, la prassi, non sono allo stato puro, ma contengono gli elementi materiali che l'uomo stesso ha oggettivato. Ciò significa in primo luogo che la filosofia della prassi è per Gramsci la coscienza piena delle contraddizioni della società a lui contemporanea, sicché «lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione» (ivi, p. 1487).
Scienze dell'uomo, tra loro distinte, e anche scienze della natura trovano al di là della loro indipendenza un momento di unità, diventando politica. Gramsci sintetizza ciò nei termini che seguono: «La filosofia della prassi è lo 'storicismo' assoluto, la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia» (ivi, p. 1437). Per intendere questa ultima affermazione, il lettore dovrà richiamare la tesi sopra riportata sulla verità come corrispondenza a una realtà dall'uomo stesso oggettivata.
3) Gramsci definisce «l'uomo come una serie di rapporti attivi (un processo), tali che esso «non entra in rapporto colla natura semplicemente per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica» (ivi, p. 1345).. In altre parole ogni individuo «non solo è la sintesi dei rapporti esistenti, ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato» (ivi, p. 1346). Come è possibile cambiare il mondo se il singolo dipende in tal modo dal suo passato? La risposta di Gramsci è che «il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento, e se questo cambiamento è razionale, il singolo può... ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che, a prima vista, può sembrare possibile» (ibidem).
In conclusione, la filosofia della prassi è per Gramsci costruzione di volontà collettive corrispondenti ai bisogni che emergono dalle forze produttive oggettivate o in via di oggettivazione e dalla contraddizione tra queste e il grado di cultura e di civiltà espresso dalle relazioni sociali. Sono implicite in questa, che appare come una concezione filosofica, una serie di scienze della natura e dell'uomo. Prese isolatamente, esse possono essere ritenute indipendenti; considerate come espressione della possibile contraddizione tra attività creative e rapporti comunicativi di tipo sociale, entrano a far parte della filosofia della prassi e possono in tal modo influire sulla politica, cioè su quei cambiamenti che ci fanno intravedere un nuovo modo di vivere a superiori livelli di civiltà.

Nicola Badaloni (1924 - 2005) docente di storia della filosofia all'Università di Pisa.

EGEMONIA

Il concetto gramsciano di egemonia si contrappone, nei Quaderni del carcere, all'idea di «dominio». È solo in una fase rozza e primitiva che si può pensare ad una nuova formazione economica sociale come dominio di una parte sull'altra della società. In realtà è un complesso sistema di relazioni e di mediazioni che stabilisce una egemonia e cioè una compiuta capacità di direzione. Gramsci fa una serie di esempi storici: in particolare quello della egemonia dei moderati nella Francia ottocentesca o in Italia. Non vi sarebbe stata organizzazione del potere moderato solo attraverso la forza. È un complesso di attività culturali e ideali - di cui sono protagonisti gli intellettuali - che organizza il consenso e consente lo svolgimento della direzione moderata.
Questa nozione del concetto di egemonia viene da una ben precisa interpretazione del pensiero di Marx. Gramsci sottolinea a più riprese che solo una lettura schematica può lasciar ritenere che in Marx quelle che egli definisce le sovrastrutture abbiano un rapporto di dipendenza meccanica con le strutture. Il fatto che in Marx si parli delle sovrastrutture come «apparenze» va dunque visto come un bisogno divulgativo, come una forma di discorso «metaforico» per un dialogo e una comprensione di massa della nuova analisi della società. Con la parola «apparenza» Marx vuole indicare dice Gramsci - la «storicità» delle «sovrastrutture» etico-politiche, culturali e ideali, contro le concezioni dogmatiche che tendono a considerarle come assolute.
Di conseguenza, Gramsci non respinge la visione proposta da Benedetto Croce sulla esigenza di uno studio della storia dal punto di vista etico-politico. Ma - e qui viene la polemica con Croce non si può interpretare la storia solo da questo punto di vista:
l'aspetto etico-politico può spiegare, appunto, il processo dell'affermarsi della egemonia dell'una o dell'altra formazione economico-sociale, ma non dà conto dell'insieme del processo storico.
Per Gramsci il grande merito di Lenin è appunto quello di avere colto, di contro alle degenerazioni e semplificazioni economicistiche e deterministiche, il valore straordinario e decisivo della lotta culturale e ideale al fine della affermazione delle classi subalterne e della affermazione di un nuovo sistema economico-sociale.
L'idea di egemonia, in Lenin, non va dunque intesa - nella interpretazione di Gramsci - come affermazione di un dominio, ma come affermazione di una superiore capacità di interpretazione della storia e di soluzione dei problemi che essa pone.
È proprio l'idea di egemonia così intesa che distacca radicalmente Gramsci da ogni forma di meccanicismo nella interpretazione del corso storico e da ogni visione riduttiva o autoritaria della funzione delle vecchie o nuove classi dirigenti. Se queste perdono egemonia culturale, ideale, morale cessano di essere dirigenti e passano all'esercizio di un dominio destinato a decadere o a crollare.
Gramsci si distacca così da ogni concezione di tipo tirannico della espressione «dittatura del proletariato».
Il concetto di egemonia in Gramsci - e la particolare lettura di Marx e di Lenin che esso comporta - si distinguono in modo radicale dalle interpretazioni di Marx e di Lenin che in quel periodo si affermavano nella terza internazionale. Del concetto di egemonia è stata sovente fornita una lettura distorta, a scopi di polemica politica. Il concetto di egemonia è stato sovente attaccato come se volesse esprimere l'idea di una dittatura di partito. Ma ciò non corrisponde in alcun modo alla tesi gramsciana, anzi la nega e la contraddice.

Aldo Tortorella, già membro della Segreteria del Pci - deputato.

CULTURA «POPOLARE»

L'analisi della cultura «popolare» (cioè di quella propria delle classi subalterne) è un momento essenziale del pensiero di Gramsci. Al centro dei Quaderni del carcere vi è la convinzione che in quella fase di sconfitta del movimento operaio, e quindi di «guerra di posizione», fosse necessaria una battaglia culturale che costituisse un blocco storico in grado di assicurarsi l'egemonia: il momento del consenso indispensabile per arrivare a quello del dominio.
In questa prospettiva diventava centrale lo studio non solo del ruolo avuto storicamente dai gruppi intellettuali, ma, anche, della mentalità e della cultura delle classi popolari fino allora tenute lontane dal potere e dalla cultura.
Per Gramsci quella cultura (nel senso largo: concezione del mondo) è essenzialmente «folklore»: un concetto e un termine per i quali egli non prova i compiacimenti generosi ma interessati dei romantici né, tanto meno, il misto di disprezzo sostanziale e di mitizzazione estetizzante dei decadenti.
Gramsci, nonostante quanto è stato affermato con burbanzosa fatuità, non era «populista», e «folklore» è per lui un concetto negativo. Esso, costituito come è in massima parte dai cascami della cultura egemone, è sempre «contraddittorio e frammentario» (Q.d.C. 1105); si avvicina al «provinciale» in quanto particolaristico e anacronistico (ivi, 1660); rappresenta «una fase relativamente irrigidita delle conoscenze popolari di un certo tempo e luogo» (ivi, 2271); corrisponde a ciò che in filosofia è il senso comune, cioè «una convinzione disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle masse di cui esso è la filosofia» (ivi, 1396). Pertanto non è né può essere «nazionale», se nazionale è solo una cultura contemporanea e a livello mondiale o almeno europeo (ivi, 1660). E compito della filosofia della prassi, in quanto «espressione» delle «classi subalterne» (ivi, 1320), è precisamente «educare le masse», liberandole dalla loro cultura arretrata (ivi, 1858) e portando le a una visione del mondo moderna e universale.
Due tesi dunque solo in apparenza contrastanti; svalutazione della cultura popolare per la sua arretratezza, ma pure riconoscimento della sua serietà (ivi, 2314) e della necessità di studiarla se si voglia compiere «un calcolo più cauto ed esatto delle forze agenti nella società». E perciò Gramsci, pure con gli strumenti limitati a sua disposizione, pone le premesse per uno studio della cultura popolare, nuovo nel metodo, nella scelta e analisi del materiale, nelle conclusioni. Elabora criteri metodologici che tengano conto dei caratteri peculiari delle classi subalterne e delle loro strutture sociali e mentali (ivi, 2268 sg; 2283 sg.), e ne distinguano le esigenze rispetto a quelle delle classi colte ed egemoni: ciò che è un ferrovecchio in città - scrive icasticamente - può essere un utensile in provincia. E intraprende un'analisi, del tutto nuova nella nostra cultura, della letteratura popolare, studiandone sia i generi (il melodramma, il romanzo d'appendice, poliziesco, nero), sia gli strumenti di produzione e diffusione (l'editoria popolare), sia particolari autori (Guerrazzi, Mastriani, la Invernizio ecc.), sia alcune opere e la loro circolazione.
I limiti di queste ricerche sono, com'è naturale, tanto nella loro stessa novità e nella mancanza perciò di modelli, quanto nelle condizioni nelle quali Gramsci lavorava. E perciò se molte delle sue analisi sono ancora oggi di pungente attualità, altre paiono imprecise, carenti di dimostrazione, non persuasive. Ma restano la novità geniale delle tesi di fondo, l'assunto della necessità di un sistema letterario organico nel quale tutti i livelli trovino posto e siano visti nelle loro reciproche implicazioni, l'avvio a un tipo di ricerche e di studi che ha dato già tanti frutti e che è ancora in pieno svolgimento.

Giuseppe Petronio (1909 - 2003) docente di letteratura italiana all'Università di Trieste

CONSENSO

Per intendere la portata e il limite del pensiero di Gramsci attorno ai problemi del consenso e della democrazia politica occorre innanzi tutto considerare la tradizione storica entro la quale si muove Gramsci. Egli ha di fronte un'Italia nella quale un suffragio allargato è introdotto soltanto dal 1919 e ha già avuto la terribile risposta del fascismo. Per altro verso egli riflette sull'esperienza della rottura rivoluzionaria dell'Ottobre che è stata bloccata dallo stalinismo principalmente per mancanza di tradizioni e istituzioni democratiche.
Fra le due guerre mondiali la democrazia è in declino in tutto il continente europeo e sul piano teorico subisce contestazioni di varia natura: Weber è morto sognando una democrazia plebiscitaria che leghi carismaticamente i capi alle masse, Lukacs e Schmitt - suoi allievi - chiedono regimi «nuovi» ispirati al mito della classe operaia e del suo partito oppure al mito della efficienza di un leader dittatore. Anche nella sinistra è profondamente penetrata la cultura di un attivismo «rivoluzionario» sostanzialmente nichilista e protestatario, cui fa riscontro la tendenza all'accettazione del «male minore». Da una parte si pensa che la macchina dello Stato è soltanto forza, cui va opposta la violenza «rivoluzionaria»; dall'altra si sottintende che non c'è sostanzialmente niente altro da fare che lasciarsi trainare dalle «forze dirigenti».
In questo quadro assume un forte significato rinnovatore l'idea gramsciana della egemonia. Secondo Gramsci la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi: come dominio (coazione) e come «direzione intellettuale e morale» (consenso). Lo Stato non è dunque mai pura forza, né la trasformazione può esser pura violenza. Quindi un gruppo dominante non è per ciò stesso dirigente e un gruppo dominato non è votato alla subalternità.
La possibilità di dissaldare la forza dal consenso si affida all'elemento creativo e mobile di una politica capace di scavalcare gli interessi ristretti (corporativi) di una classe per realizzare una più vasta aggregazione di consensi attorno a un nucleo di interessi più generali, radicati nella comunità nazionale. Questa possibilità è legata tanto alla capacità di cogliere gli interessi durevoli della classe lavoratrice e la loro convergenza con gli interessi della società nazionale, quanto alla dignità culturale di una politica che si sente responsabile della guida di un popolo e di una nazione. La capacità chiama in causa l'analisi delle tendenze fondamentali che sospingono i processi sociali in corso, mentre la dignità culturale sospinge la politica a farsi erede e continuatrice della storia nazionale: «politica-
storia». Da qui la confluenza in Gramsci di un antidogmatico spirito di ricerca delle prospettive con una approfondita indagine sulla storia della nazione e della sua cultura.
Su questa linea Gramsci reagisce sia contro l'elitismo di chi teorizza l'inevitabile e permanente scissione fra rappresentanti e rappresentati, sia contro la denigrazione della democrazia rappresentativa come regime dominato dal «numero». In realtà, ragiona Gramsci, una coerente democrazia politica «tende a far coincidere governanti e governati» e ha quindi per modello un autogoverno generale, la crescita culturale di tutti. D'altra parte «la numerazione dei voti è la manifestazione terminale di un lungo processo», nel quale vengono collaudate le proposte e le capacità della élite di risolvere i problemi generali. Non si tratta affatto di sostituire alla élite eletta una «élite per decreto». Si tratta invece di immettere nell'élite eletta una cultura fatta di responsabilità nazionale e umana nei confronti del proprio popolo e degli elettori-persone. Così si allargherà il consenso attorno a chi sarà in grado di proporre soluzioni più ragionevoli e più umane.
Mentre sull'Europa e sul mondo si addensavano le nubi della seconda guerra mondiale, nel carcere di Turi Gramsci non si accodava alle scetticheggianti critiche portate alla democrazia rappresentativa e cercava invece di orientarla a modelli più atti a radicarla nelle grandi masse emergenti. Egli concorreva così a determinare la rinascita democratica della lotta antifascista, che sarebbe in certo modo culminata - in Italia - con la conquista del suffragio universale e della Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Umberto Cerroni, docente di scienza della politica all'Università di Roma «La Sapienza»

CATTOLICI

Le posizioni di Gramsci sulla «questione cattolica» in Italia tendono fin da principio ad andare oltre il vecchio anticlericalismo, con cui essa continuò a lungo ad essere affrontata anche dopo la prima guerra mondiale. Già nel 1919 egli qualifica il partito popolare come un frutto della laicizzazione e del rinnovamento operatosi in Italia è col Risorgimento e con l'unità e come un partito di massa che esprime la progressiva maturazione sociale del proletariato italiano in direzione del suo obbligato sbocco comunista. Su questa base Gramsci afferma senz'altro che il futuro «Stato operaio dovrà anch'esso trovare un sistema di equilibrio» col cattolicesimo in Italia. D'altra parte, le masse che i popolari organizzano sono, in particolare, quelle «dei contadini e delle categorie che si trovano nella foro stessa situazione politica»; ma si tratta di masse eterogenee, i cui vari elementi sono destinati a prendere ciascuno la sua strada a mano a mano che «acquistano coscienza di sé e dei loro reali interessi»: nel suo stesso successo il partito popolare ha le ragioni della sua fatale dissoluzione, rimanendo intanto inevitabilmente connotato come «partito del programma democratico e dell'alleanza coi conservatori». In ciò Gramsci vede un'analogia dei cattolici con i socialisti, che anch'essi, da un lato, portano grandi masse ad inserirsi nello Stato uscito dal Risorgimento e, dall'altro, a non essere capaci di cambiare la logica di questo Stato. «Don Sturzo e Turati - scriveva allora Gramsci - incominciano stranamente a somigliare al vecchio Giolitti». Si tratta in entrambi i casi di una realtà «fondamentalmente conservatrice e reazionaria», di cui però non si può non tener conto, dato che in essa si attuano «un complesso inquadramento di forze reali» e lo sforzo di realizzare «un sistema più agile, più adatto alla necessità nuova di mantenere con le masse un contatto continuo» e di superare il distacco tradizionale tra lo Stato italiano e le masse.
Nel breve giro di alcuni anni la prospettiva muta, però, rapidamente. Dinanzi alla progressiva affermazione del fascismo Gramsci è teso a cogliere tutti i segni che possono indurre ad inquadrare la questione cattolica in quella più generale che egli nel 1924 già definisce come il problema di «portare sul terreno di classe la resistenza e la opposizione della popolazione lavoratrice al fascismo». Nella nuova situazione, con le secessioni che ne riducono la forza elettorale e l'organizzazione in modo assai grave, il partito popolare sembra a Gramsci essere entrato in una crisi gravissima, che lo fa staccare anche dal Vaticano e che bisogna mirare a concludere. È ora che egli elabora una netta distinzione tra politica vaticana e cattolicesimo politico italiano. In nessun caso - egli afferma - si deve mirare «a favorire i tentativi, che possono nascere, di movimenti ideologici di natura strettamente religiosa». Se i cattolici giocano un ruolo di sinistra, questo non accade perché essi si contrappongono alla Chiesa su posizioni religiose di un certo tipo, bensì perché assumono determinati orientamenti in materia sociale. Sono questi a dover interessare la sinistra, e non già le questioni di ortodossia o di principio religioso. Così le immagini di un cattolicesimo politico italiano ora in ritirata dinanzi alla penetrazione e all'assorbimento da parte fascista, ora espressione di interessi schiettamente conservatori, ora sostanzialmente strumento dell'azione vaticana, ora fortemente autonomo e reattivo sul terreno di classe, e suscettibile di grandi sviluppi in questo senso, si sovrappongono in Gramsci fino al 1926 tra loro e danno luogo a varie e significative oscillazioni del suo pensiero. Ma le oscillazioni non dipendono soltanto da ondeggiamenti teorici dello stesso Gramsci. Esse sono anche effetto del travaglio attraverso cui si stabilì in Italia tra il 1922 e il 1926 il regime fascista, e dipendono, dunque, per altro verso, dallo stretto rapporto che, in questo come in altri casi, si osserva in Gramsci tra riflessione ed esperienza, pur nello sforzo costante di padroneggiare pienamente da un punto di vista tanto storico quanto politico tutti i termini della questione cattolica.
Nel periodo del carcere, e quindi nei Quaderni, si osserva innanzitutto un allargarsi del discorso gramsciano dal cattolicesimo politico italiano a quello di tutta Europa. In questo quadro il Concordato del 1929 gli appare come particolarmente grave, perché segna, tra l'altro, un cedimento dello Stato sul terreno scolastico dalle elementari all'università, e quindi nella formazione a livello sia popolare che della classe dirigente; e perché il Concordato è legato al Trattato del Laterano, ma è un accordo fra due sovranità all'interno dello stesso Stato, con oggettiva limitazione del governo italiano a rappresentare solo lo Stato italiano, mentre la Chiesa rappresenta sia il Vaticano come soggetto di diritto internazionale che se stessa in Italia. In questo caso Gramsci irrideva a coloro che avevano «scoperto con grande stupore e senso di scandalo che cattolicismo è uguale a 'papismo'»; e, insieme, ai «grandi politici del Vaticano» che non avevano considerato appieno tutti i risvolti dell'accordo col governo fascista. Ora egli mostrava maggiore interesse per le contestazioni religiose al Vaticano, parlando del modernismo assai positivamente e affermando che in seno alla Chiesa non si può «evitare di porre in forma religiosa problemi che sono spesso puramente mondani, di "dominio"». Nello stesso tempo diventa dominante l'attenzione per l'Azione Cattolica, come braccio secolare della politica pontificia.
Ma Gramsci sottolinea pure che nel mondo contemporaneo la Chiesa non è più una forza mondiale direttiva e ispiratrice di forze e di valori, ma è anzi subalterna alle forze e ai valori di tale mondo; e che, a sua volta, l'Azione Cattolica, subalterna alla Chiesa, non può realizzare appieno le necessità che affiorano dall'interno del suo sviluppo. E nello stesso tempo distingue all'interno del mondo cattolico tre correnti in lotta per l'egemonia: integralisti, gesuiti e modernisti (grosso modo: destra, centro e sinistra).
Certo il problema si imponeva alla sua riflessione con forza crescente. Nella seconda metà della sua reclusione le note sulla questione cattolica si intensificano. Con Pio XI - non a caso definito come «papa dei Gesuiti» - si ha un grosso sforzo di far prevalere una linea di mediazione e di compromesso con le forze al potere in Italia e in Europa, con un procedere che Gramsci trova anche «incerto, timido, titubante». Ciò conferma a Gramsci che la questione cattolica si pone come questione aperta soprattutto per quanto riguarda il problema del rapporto tra la Chiesa e il partito politico di cui essa non può più fare a meno nella società contemporanea. Per allora questo partito era in Italia l'Azione Cattolica; e, con l'ispirazione dei Gesuiti, si cercava di «costituire una larga base popolare al movimento cattolico-democratico».. Ma la situazione avrebbe potuto mutare e obbligare a riconsiderare il problema, così come già era accaduto dal 1926 in poi rispetto agli anni precedenti, e negli ultimi anni del carcere rispetto ai primi.

Giuseppe Galasso, storico - docente di storia medievale e moderna all'Università di Napoli - già deputato del Pri

BLOCCO STORICO

Si confonde spesso il concetto gramsciano di blocco storico, che è un concetto storico e analitico, con quello di alleanze sociali, o di blocco sociale. Gramsci aveva posto con grande chiarezza il problema delle alleanze della classe operaia nella sua azione di dirigente del partito comunista, e specialmente negli ultimi anni prima dell'arresto. Nelle tesi del congresso di Lione (gennaio 1926) è affermata la necessità di porre in prima linea, fra gli alleati del proletariato industriale e agricolo, i contadini del Mezzogiorno e delle Isole. Nello scritto sulla Questione meridionale (novembre 1926) Gramsci indica «il consenso delle larghe masse contadine» come la condizione per mobilitare contro il capitalismo la maggioranza della popolazione lavoratrice.
Gli intellettuali hanno nella formazione delle alleanze, nella concreta situazione italiana, un ruolo decisivo. Essi infatti contribuiscono a legare nel Mezzogiorno i contadini ai grandi proprietari terrieri. È necessario spezzare questo legame attraverso la formazione nella massa degli intellettuali di una tendenza di sinistra «nel significato moderno del termine, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionano».
Su un altro piano, come abbiamo detto, si pone il concetto di blocco storico, che tocca la questione teorica centrale del marxismo: il rapporto fra struttura e soprastruttura, fra teoria e pratica, fra forze materiali e ideologie. Gramsci respinge ogni visione deterministica e meccanicistica di questo rapporto. Non esiste una struttura che muove unilateralmente il sovrastante mondo delle idee, non c'è una semplice connessione di causa ed effetto, ma un insieme di relazioni e reazioni reciproche, che vanno studiate nel concreto svolgimento storico.
È fondamentale a questo proposito la ricerca condotta nei Quaderni del carcere. Gramsci tende a considerare astratta la distinzione fra struttura (i rapporti sociali di produzione) e soprastruttura (le idee, i costumi, i comportamenti morali, la volontà umana). Nella concretezza storica c'è convergenza fra gli uni e gli altri, una convergenza che conosce la distinzione e la dialettica, ma che si risolve in una «unità reale».
«La pretesa (presentata come postulato essenziale del materialismo storico) - scrive Gramsci - di presentare ed esporre ogni fluttuazione della politica e dell'ideologia come una espressione immediata della struttura, deve essere combattuta teoricamente come un infantilismo primitivo, o praticamente deve essere combattuta come la testimonianza autentica del Marx, scrittore di opere politiche e storiche concrete».
Esiste infatti una difficoltà di identificare di volta in volta, staticamente, la struttura. In realtà la struttura intesa separatamente dal processo storico, in sé, non esiste: e per quanto essa è obiettivamente rilevabile, è un movimento entro la storia, non una realtà al di fuori o sottostante la storia. Per queste ragioni la politica deve tener conto delle tendenze di sviluppo della struttura, che non tutte è detto debbano necessariamente realizzarsi. Di qui la possibilità dell'errore politico, che il materialismo storico meccanico invece esclude, ritenendo che ogni atto politico sia rigidamente determinato dalla struttura. Si tratta invece di cogliere un movimento e le sue contraddizioni.
Lo stesso criterio vale per l'esame delle relazioni fra teoria e pratica. Anche nei nuovi sviluppi del materialismo storico, osserva Gramsci, riferendosi probabilmente all'esperienza sovietica, «l'approfondimento del concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: ancora ci sono dei residui di meccanicismo. Si parla ancora di teoria come "complemento" della pratica, quasi come accessorio».
Tutta la polemica di Gramsci è rivolta contro l'economicismo e il pragmatismo degli interpreti del marxismo della II e della III Internazionale, e al tempo stesso contro ogni concezione idealistica, speculativa, che annulla o subordina i fatti pratici e materiali. C'è, al contrario, una «reciprocità necessaria» fra strutture e soprastrutture: «reciprocità che è appunto il processo dialettico reale».
Sottolineare il valore degli elementi di cultura e di pensiero ha un significato non solo teorico e di metodo storico, e qui ci riallacciamo al problema delle alleanze e degli intellettuali: il consenso, la direzione politica e culturale, sono «forma necessaria del blocco storico concreto». Nessuna formazione storica dotata di consistenza e di avvenire può prescindere da una sua espressione intellettuale e morale, da un suo cemento di idee e di valori.

Renato Zangheri, Sindaco di Bologna per il PSI (1970-1983), capogruppo alla Camera per il PCI (1983-1987), rettore dell’Università di San Marino fino al 1994.

AMERICANISMO E FORDISMO

Uno dei dati consolidati della storiografia sulla III Internazionale è certamente quello della carenza di analisi sugli Stati Uniti e sull'evoluzione della società americana. Tra l'altro è a questa insufficienza di analisi che si devono tal uni errori commessi dall'Unione Sovietica e dal movimento comunista nel campo delle relazioni internazionali all'indomani della seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti apparvero come potenza egemone a livello planetario.
Appare quindi ancor più sorprendente ed eccezionale che Gramsci, nella sua elaborazione solitaria di recluso, abbia avuto la sensibilità di cogliere, quale elemento d'interesse della documentazione che riusciva a farsi pervenire, le osservazioni sulla società americana. L'angolo visuale dal quale Gramsci si colloca è quello a lui ben noto per l'esperienza torinese dell'organizzazione del lavoro nella grande fabbrica. E il primo dato che egli mette in risalto nella serie di note sugli Stati Uniti - scritte in anni diversi e raggruppate tematicamente nel 1934 - è l'intuizione dell'enorme forza del capitalismo americano, il solo che non si trovi di fronte i limiti rappresentati dai residui sociali, culturali, di modi di produzione precedenti. Già un'adeguata valutazione di questa intuizione avrebbe potuto evitare, anche in anni assai più vicini, certe macroscopiche sottovalutazioni della forza del capitalismo statunitense.
Il secondo dato rilevante è la comprensione della modernità del modello americano di organizzazione del lavoro che, lungi dal fare dell'operaio un «gorilla ammaestrato», crea anzi le premesse per una maggiore coscienza di classe che, da parte dei capitalisti, si tenta di contrastare sia con gli alti salari sia con strumenti «pedagogici».
Gramsci riconosceva che «... il metodo di Ford è "razionale", cioè deve generalizzarsi, ma che perciò sia necessario un processo lungo, in cui avvenga un mutamento delle condizioni sociali».
A differenza, dunque, di larga parte dei gruppi dirigenti e, ancor più, di vasti strati intellettuali dell'Italia fascista, Gramsci riconosce la superiorità dell'organizzazione produttiva americana, anche se ritiene che essa non potrà continuare a godere della posizione di privilegio con il generalizzarsi del metodo, che impedirà la possibilità di mantenere gli alti salari. In questo senso, anche a Gramsci sfuggono le capacità di autoregolazione che il capitalismo viene sviluppando per il tramite dell'intervento statale, capacità che, nonostante crescenti difficoltà, consentono ancora oggi al capitalismo americano di mantenere la propria egemonia a livello mondiale.
D'altra parte, non si deve dimenticare che le notazioni gramsciane sono estremamente precoci e non possono tenere conto degli sviluppi Le parole legati alla «grande depressione» e agli strumenti utilizzati per superarla.
Ma l'acume gramsciano non si limita alla individuazione degli aspetti essenziali della nuova società che si viene sviluppando; si spinge anche al riconoscimento di rilevanti aspetti culturali e di costume, che vanno dall'incidenza del nuovo ordine produttivo sulle abitudini sessuali alle caratteristiche dell'associazionismo di classe, alla profonda differenziazione tra la cultura degli intellettuali americani e quella degli europei.
Ma, al di là delle intuizioni più o meno profonde, quel che colpisce nella riflessione gramsciana è la sua assoluta originalità, prova di una profonda capacità di comprensione della realtà sociale che neppure le orribili condizioni della detenzione e dell'isolamento riescono ad attenuare.

Carlo Pinzani, storico

SENSO COMUNE E FILOSOFIA

Quello del «senso comune» è uno dei grandi temi che Gramsci, fin dall'inizio dei Quaderni del carcere (febbraio 1929), si propose di scrutare e mettere a fuoco in tutte le sue attinenze e nella sua rilevanza politica. Non a caso esso attraversa gran parte della sua meditazione carceraria. L'odierno esteso uso del termine, almeno in Italia, nel linguaggio politico, si può dire che è stato largamente influenzato dalla diffusione postuma del pensiero di Gramsci.
L'espressione «senso comune» è di origine filosofica (come ognuno può riscontrare consultando un qualsiasi Dizionario di filosofia, o una storia della filosofia moderna). Il confronto con la tradizione filosofica rimane una costante essenziale delle osservazioni di Gramsci in proposito, ma non allo scopo di proseguirla, bensì di trasformarla profondamente immettendo la nozione di «senso comune» nel discorso politico, appunto; cioè costituendola in categoria della scienza politica, interpretativa della realtà sociale e in pari tempo operativa.
Gramsci osserva che famosi filosofi (per esempio lmmanuel Kant o Benedetto Croce) si sforzano di far apparire le loro filosofie in accordo col cosiddetto «senso comune» (o anche «buon senso»), inteso come atteggiamento di opinione (<

Cesare Luporini (1909-1993), filosofo

RIFORMA INTELLETTUALE E MORALE

Per cogliere correttamente il senso della espressione gramsciana «riforma intellettuale e morale» è preliminare decantarla da un possibile equivoco. Il riferimento di Gramsci non è infatti da ricercarsi nel «riformismo», categoria integrante della storia del movimento operaio, ma invece nella «Riforma» protestante del secolo XVI, e delle sue conseguenze in quello che Gramsci definisce «lo spirito pubblico», il modo di sentire e di pensare delle grandi masse popolari; e alla Riforma egli associa l'analoga funzione svolta, in Francia, dalla rivoluzione democratico-borghese del settecento.
«Riforma luterana-calvinismo inglese-in Francia razionalismo settecentesco e pensiero politico concreto (azione di massa). In Italia non c'è mai stata una riforma intellettuale e morale che coinvolgesse le masse popolari [...] Il materialismo storico perciò avrà o potrà avere questa funzione non solo totalitaria come concezione del mondo, ma totalitaria in quanto investirà tutta la società fin dalle sue più profonde radici») (Quaderno 4, 1930-32, paragrafo 75). (Occorre sottolineare che, in Gramsci, qui e altrove, il termine «totalitario» non può esser letto secondo la connotazione negativa entrata nell'uso?.
Si tratta di una tematica, del resto, che Gramsci trae dalle discussioni critiche sulle modalità del Risorgimento italiano (egli stesso cita Gobetti, Missiroli, Dorso, e altri) e che inerisce pertanto alle più ampie ricerche gramsciane sul Risorgimento stesso, sul concetto di rivoluzione passiva; e, ancor più in generale, sul rapporto intellettuali-masse. In Gramsci è infatti del tutto pregiudiziale la consapevolezza che una tale riforma non può essere imposta dall'alto, ma può sorgere soltanto all'interno di un profondo sommovimento delle coscienze: un sommovimento che egli, comunista, identifica con il «materialismo storico», nel duplice significato di sistema di idee e di prassi rivoluzionaria.
Da qui la funzione che egli attribuisce al 'moderno Principe', il partito, che «deve e non può non essere il banditore e l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna». (Quaderno 13, 1932-34, paragrafo 1).
«Ma può esserci - continua Gramsci - riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale» (ivi).
Appare quindi netta, in queste note gramsciane, la componente «politica» di un «programma» di riforma intellettuale e morale e il suo strettissimo nesso con un programma di riforma economica; cioè, in sostanza, di un mutamento nei rapporti tra le classi, e in quelli tra classi e potere politico.
Ancora una volta, perciò, il pensiero del Gramsci maturo dei Quaderni del carcere si palesa come rigorosamente ancorato al marxismo, attento cioè ai nessi fondamentali tra struttura dei rapporti di classe e formazioni della coscienza, tra «economia», «politica», e «cultura».

Mario Spinella (1918-1994), scrittore e partigiano

QUESTIONE DELLA LINGUA IN ITALIA

Per anni, biografi e critici di Gramsci, a cominciare da Piero Gobetti, si sono stupiti di un fatto: che un uomo così geniale e appassionato alla lotta politica e alla battaglia delle idee si fosse occupato tanto professionalmente di studi linguistici. Nello stupore, espresso a volte in forme assai candide, possiamo leggere uno dei tanti esempi della persistente difficoltà che gli studi linguistici e filologici incontrano nell'acclimatarsi nel nostro paese, cui continuano a risultare più che stranieri strani, diversamente da ciò che avviene in altre terre. Ma qui vogliamo parlare di Gramsci.
A parte il lungo impegno giovanile negli studi linguistici alla scuola torinese di Matteo Bartoli, che si protrasse ben oltre l'inizio della milizia politica, fino almeno al 1918, va ricordato l'impegno più maturo di Gramsci. I Quaderni del carcere si aprono col primo, del 1929, fitto di progetti e note sulla questione della lingua e il suo senso in Italia, e si chiudono con l'ultimo, il 29, del 1935, interamente dedicato a «Note per una introduzione allo studio della grammatica». L'edizione critica dei Quaderni dataci da Valentino Gerratana nel 1975 mise sotto gli occhi di tutti, con palmare evidenza, quel che prima solo ad alcuni (Sozzi, Rosiello) era stato possibile arguire: e cioè che le meditazioni sul linguaggio e sulla assai particolare situazione linguistica nazionale italiana non erano per Gramsci un sentiero laterale, ma una strada maestra di tutta la sua riflessione.
Quattro anni dopo l'edizione critica, un libro ampio e documentato di Franco Lo Piparo è partito da questa constatazione. In Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci (Laterza 1979) Lo Piparo ha mostrato che le considerazioni sulla vicenda storico-linguistica italiana e l'elaborazione dell'idea di linguaggio come attività capace sia di cementare un comune sentire sia, in altre circostanze, di produrre insanabili fratture entro una società, sono state decisive per Gramsci.
A partire da ciò egli reinterpretò la nostra storia nazionale scientifico-intellettuale e politica, ed elaborò la teoria dell'egemonia, della costruzione di un effettivo consenso come presupposto di una reale capacità di direzione.
Qualche anno dopo, in un convegno dedicato a Gramsci e ripreso e pubblicato nella rivista catanese «Le forme e la storia», Valentino Gerratana dichiarò il suo assenso all'analisi di Lo Piparo.
E in quella stessa sede Giuseppe Giarrizzo dette una interpretazione assai suggestiva delle meditazioni gramsciane sulla realtà linguistica:
esse sarebbero nate dallo sforzo di costruire una teoria della cultura e della società tale da dare ragione alla peculiare condizione italiana nel quadro delle sollecitazioni e delle scelte drammatiche della Terza Internazionale e del movimento comunista internazionale al centro delle quali il giovane Gramsci, diventato «capo della classe operaia» in Italia, venne a trovarsi bruscamente proiettato.
Nell'attivare parecchie parti della complessa riflessione gramsciana sul linguaggio (sulla mobilità e stratificazione della lingua; sulla tensione perenne tra grammatica vissuta e grammatica normativa; sulle strette relazioni tra scelte espressive e forme della cultura e della vita sociale) un peso ebbero certamente anche le esperienze di prassi linguistica che Gramsci visse. Come giornalista e come dirigente del nascente comunismo italiano, egli fu continuamente impegnato a fronteggiare le necessità di costruire un linguaggio politico e teorico nuovo, capace di articolare e pensare il nuovo mondo di idee e possibilità che si andava creando, e tuttavia tale da risultare trasparente alle masse in funzione di cui nasceva; un linguaggio esportabile su scala internazionale e tuttavia saldamente radicato nella tradizione nazionale. Egli fu costretto, insomma, a farsi di continuo traduttore e mediatore, al confine fra correnti linguistiche diverse.
Accanto agli studi linguistici e dialettologici alla scuola di Bartoli, accanto ad Ascoli, valorizzato giustamente da Lo Piparo, accanto ai pragmatisti italiani, sulla cui influenza hanno insistito Amodio ed Emilia Passaponti, fra le fonti della teoria gramsciana del linguaggio dobbiamo dunque collocare anche, come suggerisce Giarrizzo, lo stimolo che a Gramsci venne dalla viva esperienza politica, e quello della pratica concreta della parola nel contesto nazionale e internazionale.

Tullio De Mauro, docente di filosofia del linguaggio all'Università di Roma «La Sapienza»

GUERRA DI POSIZIONE E GUERRA DI MOVIMENTO

Il concetto di «guerra di posizione» è parte della teoria dell'egemonia e risponde all'esigenza di definire i caratteri storici nuovi della lotta politica nel mondo, dopo la grande guerra e la Rivoluzione d'ottobre.
«Il passaggio dalla guerra manovrata alla guerra di posizione», afferma Gramsci, appare «la questione di teoria politica la più importante, posta dal periodo del dopoguerra e la più difficile a essere risolta giustamente». La «rivoluzione in due tempi», egli aveva affermato fin dal '20 in un celebre articolo dell'Ordine Nuovo («Due rivoluzioni»), e cioè la conquista dello Stato in una battaglia campale risolutiva e l'impiego della macchina statale per trasformare coercitivamente la società, non può costituire l'archetipo della rivoluzione proletaria. La Rivoluzione d'ottobre, quindi, era da considerare l'ultima rivoluzione ottocentesca.
Il passo in cui il concetto di «guerra di posizione sul terreno politico» è formulato nel modo più pregnante, fa riferimento - così come accade quando Gramsci enuncia la concezione dell'egemonia - alla disputa che aveva contrapposto Lenin (tattica del «fronte unico») a Trotzckij (teoria della «rivoluzione permanente») circa i modi di sviluppare la lotta rivoluzionaria dopo il «grande atto metafisico» dell'Ottobre:
«Mi pare che Ilici aveva compreso - afferma Gramsci nel Quaderno n. 7 - che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente (...). In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura di società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un'accurata ricognizione di carattere nazionale».
Il passo è denso di riferimenti storici e di rimandi teorici che si possono cogliere alle voci «egemonia», «rivoluzione passiva», «americanismo», «intellettuali». Qui vorrei richiamare l'attenzione solo su un punto.
La distinzione fra Oriente e Occidente riprende un tema che già era stato al centro della elaborazione culminata nelle Tesi di Lione.
Esso riguarda le caratteristiche del rapporto fra produzione e politica nelle società capitalistiche sviluppate e chiarisce l'impossibilità di concepire la rivoluzione socialista in Occidente come un processo «puramente politico». «Nei paesi a capitalismo avanzato - aveva affermato Gramsci nel rapporto al Comitato centrale dell'agosto 1926 - la classe dominante possiede delle riserve politiche ed organizzative che non possedeva per esempio in Russia. Ciò significa che anche le crisi economiche gravissime non hanno immediate ripercussioni nel campo politico. La politica è sempre in ritardo e in grande ritardo sull'economia. L'apparato statale è molto più resistente di quanto non si può credere e riesce ad organizzare nei momenti di crisi forze fedeli al regime più di quanto la profondità della crisi potrebbe lasciar supporre».
Sviluppando la distinzione fra Oriente e Occidente, nel Quaderno 13 («Noterelle sulla politica del Machiavelli»), Gramsci perviene ad una enunciazione teorica di valore generale circa i rapporti fra politica ed economia. Nel celeberrimo Par. 17, Rapporti di forza:analisi delle situazioni, alla domanda «se le crisi storiche fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche», egli risponde: «si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le questioni che coinvolgono tutto l'ulteriore sviluppo della vita statale».
L'importanza del concetto di «guerra di posizione» si coglie dunque nel punto d'arrivo e di massima generalizzazione del ragionamento. Questo modo di dissolvere teoricamente l'economicismo si può considerare l'aspetto di maggiore originalità della tradizione comunista italiana e di massima differenza dalle altre correnti del movimento comunista e socialista internazionale.

Giuseppe Vacca, docente di storia delle dottrine politiche all'Università di Bari, presidente della Fondazione Istituto Gramsci.

PARTITO COME «MODERNO PRINCIPE»

Il «Principe» del Machiavelli non viene visto da Gramsci solo come prima compiuta espressione della scienza della politica. Egli sottolinea; naturalmente, la originale funzione del Machiavelli: colui che, per primo, distacca la trattazione della politica da quella della religione e della morale e si sforza di individuare le leggi universali e generali dell'opera di tutti i grandi che hanno fatto politica. Ma Gramsci sottolinea anche che il «Principe» va letto non solo come un trattato di scienza della politica (sia pure come il trattato fondativo) ma anche come un testo politico storicamente concreto, destinato nell'intenzione dell'autore - ad un intento concreto: e, cioè, al concreto scopo di rivolgersi alla «classe rivoluzionaria del tempo, il "popolo", la "nazione italiana", la democrazia cittadina che esprime dal suo seno i Savonarola e i Pier Soderini...» (Quaderno XIII, 20).
Un testo, dunque, dal «carattere essenzialmente rivoluzionario», come lo è la «filosofia della praxis» destinata anch'essa a parlare alla nuova classe sorta nel seno dei nuovi rapporti di produzione per indirizzarne e guidarne gli sforzi.
Questi sforzi non potrebbero essere coronati di alcun risultato se un «moderno Principe» (in quanto nuova teoria della politica) non fosse scritto, e un «moderno Principe» (in quanto attore della storia) non fosse costituito e non prendesse il suo posto dentro la realtà concreta del tempo presente: un «moderno Principe», che non può essere altro che il nuovo soggetto collettivo già storicamente affermatosi e cioè il partito politico.
La teoria da scrivere deve riguardare la nascita stessa e la possibilità, a partire da un riesame storico che vada alle radici della vicenda nazionale, del costituirsi di una «volontà collettiva» (la volontà intesa come «coscienza operosa della necessità storica, come protagonista di un reale ed effettuale dramma storico»), le ragioni dei suoi fallimenti, le condizioni del suo possibile affermarsi nello scontro concreto tra le classi. E di questa teoria del «moderno Principe» la seconda parte dovrà riguardare la «questione di una riforma intellettuale e morale» di cui il nuovo protagonista della storia dovrà farsi protagonista (Q. XIII, 2).
Così il partito di cui Gramsci traccia l'idea ha un compito altissimo, politicamente e moralmente. Viene di qui una concezione che tende a fare del «moderno Principe» un soggetto che può porsi come assoluto: «Il "moderno Principe", sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il "moderno Principe" stesso, e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo» (Q. XIII, l).
Questo atteggiamento di Gramsci non può essere separato dal contesto storico in cui egli vive e lotta, essendo nel fondo di un carcere, dopo una drammatica sconfitta del movimento operaio e della democrazia. La sua riflessione si svolge nella opposizione ad una forza totalitaria e che totalitariamente esprime una dura e spietata tirannide di classe ammantata di ideologia:. il nuovo e «moderno Principe» - e cioè il partito della trasformazione socialista - non poteva presentarsi sull'arena di quella terribile lotta con minori certezze. Tanto più che esso parlava unicamente in nome di una speranza.
Ma per una valutazione corretta di questa accentuazione totalizzante bisogna anche ricordare che, in Gramsci, questa visione del partito non è quella di una organizzazione burocratica o di uno strumento di potere, ma quella di una potenza ideale destinata a compiere quella «riforma intellettuale e morale» che ha nella riforma economica della società soltanto il «modo concreto di manifestarsi».
Il «moderno Principe», anzi, proprio perché compie quella riforma intellettuale e morale storicizzando la realtà e i valori - e storicizzando anche se stesso - diventa la base di «un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume» (ibidem).
Questa concezione del partito in Gramsci non può dunque essere ridotta e banalizzata - come è stato fatto - quasi che essa costituisse l'imitazione o l'eco di quel che intanto andava accadendo nell'Urss e del ruolo che vi acquistava il partito. Era una concezione che, tuttavia, andava superata; e così è già in Togliatti con l'idea del «partito nuovo», cui si aderisce su base programmatica. Il laicismo moderno e la laicizzazione integrale che Gramsci considerava come finalità essenziale avrà bisogno di un partito comunista che, senza nulla perdere del proprio impegno ideale e morale, sappia considerarsi come un soggetto tra gli altri: capace di battersi per i propri convincimenti e per i propri programmi senza ignorare le ragioni degli altri.

Aldo Tortorella, già membro della Segreteria del Pci - deputato.

INTELLETTUALI

La questione degli intellettuali ha un rilievo fondamentale così nella teoria politica di Gramsci come nella sua analisi della storia d'Italia.
Per lui l'intellettuale non è soltanto il produttore di cultura: cioè l'artista, lo scrittore, lo scienziato, il filosofo, eccetera. Gramsci è, infatti, uno dei primi studiosi della società contemporanea che ha una visione ben più ampia delle funzioni e del lavoro intellettuale: mentre guarda con interesse al ruolo che particolarmente in una realtà come quella italiana hanno esercitato anche in passato le categorie intellettuali (per esempio il clero), egli concentra la sua attenzione sul fatto che con lo sviluppo del capitalismo moderno, con l'avvento delle società di massa, con l'intreccio crescente tra Stato e società civile, sono destinate a crescere enormemente l'importanza e l'estensione delle attività che sono riconducibili a una professione intellettuale.
In un passo del celebre saggio Alcuni temi della questione meridionale Gramsci sottolinea in modo molto limpido il mutamento nella collocazione e nella funzione degli intellettuali che avviene con la crescita del capitalismo e con lo sviluppo di una società industrializzata. «In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente modificato - egli scrive - dallo sviluppo del capitalismo. L'industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale: l'organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata. Nelle società dove le forze economiche si sono sviluppate nel senso capitalistico, fino ad assorbire la maggior parte dell'attività nazionale, è questo secondo tipo di intellettuale che ha prevalso. Nei paesi invece dove l'agricoltura esercita un ruolo ancora notevole o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che dà la massima parte del personale statale ed esercita la funzione di intermediario tra il contadino e l'amministrazione in generale.
Ma così nell'uno come nell'altro caso, sia che si tratti degli intellettuali tecnici e scientifici direttamente inseriti nella produzione oppure di quelli più collegati alle attività tradizionali o alle funzioni amministrative dello Stato, per Gramsci la funzione di questi strati è decisiva nel rapporto tra le classi fondamentali, cioè tra la borghesia, il proletariato, i contadini. La questione degli intellettuali si salda così strettamente, nella sua teoria politica, con quella dell'egemonia e del consenso.
A più riprese, nelle Lettere e nei Quaderni, Gramsci sottolinea infatti la distinzione fra una società politica (o un partito, una classe) che eserciti il dominio soltanto attraverso l'apparato coercitivo dello Stato, e una società politica che aggregando a sé gli intellettuali e le organizzazioni della società civile sia capace di esercitare il potere attraverso il consenso. È proprio se dimostra la capacità di guadagnarsi l'adesione non solamente dei suoi «intellettuali organici» (quelli, cioè, che sono l'espressione diretta di una determinata classe e dei suoi interessi), ma di strati assai più vasti di lavoratori intellettuali, che una classe di governo dimostra di essere non soltanto «dominante», ma «dirigente»: cioè di svolgere un ruolo «realmente progressivo, che fa avanzare realmente l'intera società».
È evidente l'importanza di questa analisi della questione degli intellettuali, sia al fine di porre le basi per una specifica riflessione sugli autonomi problemi riguardanti la vita e l'organizzazione della cultura (problemi ai quali l'opera di Gramsci dedica, infatti, il massimo rilievo), sia al fine di sottolineare la necessità di ricercare e promuovere (tanto più in società complesse come quelle dell'Occidente) uno schieramento di alleanze assai più ampio ed articolato di quello realizzatosi, nell'Ottobre sovietico, attorno ai soviet degli operai, dei contadini, dei soldati.
Non a caso è questo uno degli aspetti della riflessione di Gramsci che ha avuto il più ampio sviluppo non solo nella successiva elaborazione dei comunisti italiani, ma nel dibattito e nella ricerca di tutta la sinistra occidentale, così in Europa come nelle due Americhe.

Giuseppe Chiarante membro della segreteria del Pci, poi capogruppo PDS in Senato (1992-1994)

MORALE E POLITICA

Prendiamo la politica nel senso più specifico, e per altro precisato spesso da Gramsci: una attività che viene esplicata dalle forze della «realtà effettuale» e torna, si riapplica, a questa realtà; la volontà collettiva coordinata e cosciente che si assomma nello Stato e nei partiti; la volontà collettiva che non si restringe più solo alla difesa di sé e neppure cerca solo il primato nella società civile, ma che appunto governa o aspira a governare. Ora, nel mezzo delle molteplici possibilità di trasformazione che una società ha davanti, cosa deve fare la politica? Abbiamo, in proposito, nella riflessione di Gramsci, essenzialmente due livelli.
C'è, egli scrive nel 1932-'34-, la «grande politica»: quella che «comprende le questioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico-sociali». E c'è la «piccola politica»: la politica non «creativa» ma di «equilibrio)), la «politica del giorno per giorno)). Non si può praticare solo la grande politica: non è che il quotidiano della società non interpelli la politica; anche i rivoluzionari, nota Gramsci nel 1919, devono sapere fare viaggiare i treni.
Ma, soprattutto, la politica non può esaurirsi nel piccolo fare, in un fare che non si riferisca a finalità «grandi», e quindi sorpassative dell'«empirismo immediato». L'uomo di Stato deve non praticare un «troppo realismo politico», ma avere «prospettive» lunghe; ha il compito non di «conservare un equilibrio esistente», ma di «creare nuovi rapporti di forze, e perciò non può non occuparsi del dover essere». Beninteso, non di un dover essere arbitrario: egli deve «sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale», ma deve mirare a squilibrarla e riequilibrarla più in avanti, insomma a «dominarla e superarla».
La riflessione di Gramsci, di un socialista, non può tuttavia non portarsi al di là di questa tipologia relativamente descrittiva. Non può non porsi questo interrogativo: cosa deve fare una politica socialista, di progresso? Indubbiamente: «grande politica», dunque politica in vista di un dover essere. Ma di quale dover essere? Di quale «nuovo Stato»? Una politica di progresso non può manifestamente non trovare la sua identificazione che nelle finalità che si propone. E queste, in ultima analisi, non possono essere che finalità morali. Già nel 1917 Gramsci osservava: «Il socialismo... ha una morale».
Per Gramsci le finalità che la politica deve realizzare, le trasformazioni o condizioni che essa deve creare, hanno da essere, hegelianamente e marxianamente, non cose astratte ma esigenze e possibilità implicite nella «realtà effettuale» e nel tipo di economia e di «tecnica civile» che, muovendo da questa, si può edificare.
Questo radicamento realistico delle finalità non è però relativismo o politicismo. Se la politica ha uno spazio di autonomia, anche la morale ha un tale spazio: non c'è solo il dover essere realistico, non ci sono solo le finalità che la politica realizza; ci sono anche le finalità morali. Sono quelle che attengono a un vivere interamente umano degli individui. E queste finalità costituiscono palesemente la frontiera che la politica in ultima analisi ha da tenere in vista.
Sono esse il retroterra che sostiene le finalità realistiche della politica: Gramsci non potrebbe insistere in modi così pronunciati sullo Stato e sul partito come educatori degli individui alla disciplina, a un «conformismo sociale» o «razionale», ai valori collettivi, se non guardasse oltre, alle finalità morali o di umanizzazione piena.
Sono queste poi che diventeranno, con il mutamento in avanti della «realtà effettuale», finalità più direttamente appoggiate o favorite dalla politica. Una «realtà effettuale di progresso concepisce se stessa come legata... a tutta l'umanità». Questa realtà «si pone come tendente...
a unificare tutta l'umanità... La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale». È tesi che esigerebbe di essere discussa per la sua inflessione unificatoria. Ma badiamo all'essenziale: il fare di una politica di progresso non può non avere a frontiera le finalità morali; e occorre che la politica faccia progredire la «realtà effettuale» in modo che queste finalità possano essere portate nell'area delle finalità accessibili a molti e facilmente praticabili. Bisogna fare diventare esigenze e possibilità interne alla «realtà effettuale» finalità, per usare alcune formulazioni di Gramsci, come l'umanità unificata, l' «umanità pura», la «pienezza di vita e di libertà», la «forma superiore e totale di civiltà moderna», la necessità per l'avvenire, la responsabilità per la posterità.
A Gramsci si contesta, credo con fondamento, l'inclinazione a concepire la politica come l'attività che quasi essenzialmente risulta autrice del rinnovamento della «realtà effettuale». Ma dovremmo per questo legittimare una politica piccola o minimale, di mero equilibrio? Pur all'interno di una visione pluralistica del rinnovamento di una società risulta chiaro che per tale rinnovamento c'è bisogno di una politica «grande», di una politica che cerchi di essere costruttrice di storia, di un «nuovo Stato».
Si contesta poi a Gramsci la tendenza ad allineare all'indietro la frontiera delle finalità morali su quella delle finalità politiche. È vero piuttosto il contrario. Al fare politico Gramsci prospetta chiaramente la necessità di ancorarsi alle finalità morali. Egli non coglie certo in modo adeguato la tensione, verosimilmente inesauribile, fra una realtà pur umanizzata e le finalità morali o di umanizzazione piena.
Ma queste sono inequivocamente al centro della sua riflessione.
Gramsci, in sintesi, punta essenzialmente non a politicizzare il vivere morale, ma a dare universalità morale al vivere politico. Dunque inattualità di Gramsci, se pensiamo a molta politica e cultura politica di oggi; ma sua attualità straordinaria, se della politica vogliamo riguadagnare e tematizzare non cosa essa fa, ma cosa essa deve fare.

Aldo Zanardo, docente di filosofia morale all'Università di Firenze

FILOSOFO DEMOCRATICO

Nella riflessione gramsciana sugli intellettuali alcune specifiche nozioni storiografiche acquistano significati di categorie più generali.
Gramsci, ad esempio, conferisce solitamente valore emblematico di intellettuali «tradizionali» agli umanisti italiani «cosmopoliti», distaccati dalle urgenze pratiche di una mondanità che pure l'umanesimo e il rinascimento avevano contribuito a scoprire, o riscoprire, come dimensione moderna di civiltà e di storia. Gli illuministi antesignani o partecipi della Rivoluzione francese si possono considerare, invece, come i primi intellettuali «organici» del mondo moderno. Essi progettano «riforme» perché sono intellettuali riformati, ovvero provengono da una «riforma intellettuale».
Per i tempi che si approssimano, Gramsci prefigura un nuovo ordinamento economico-produttivo dal quale emergano intellettuali «organici» alla produzione: nuovi tecnici e, mediante un processo intensivo di emancipazione culturale, operai o lavoratori manuali trasformati essi stessi in tecnici o in dirigenti. E poiché per lui, come è noto, «tutti gli uomini sono filosofi», un tale rivolgimento farà tutt'uno con il radicarsi nel mondo del lavoro di una nuova coscienza filosofica individuale, identificabile con la stessa, rinnovata, «filosofia della praxis».
La «filosofia della praxis» è, d'altra parte, non solo filosofia della politica (così, forse, Umberto Cerroni nella voce «Filosofo democratico» del suo Lessico gramsciano), ma filosofia che fa politica, anzi che si fa politica. Leggiamo infatti nei Quaderni, (pp. 1331-1332):
«una delle maggiori rivendicazioni dei moderni ceti intellettuali nel campo politico è stata quella delle così dette 'libertà di pensiero e di espressione del pensiero (stampa e associazione)' perché solo dove esiste questa condizione politica si realizza il rapporto di maestro discepolo [...] e un nuovo tipo di filosofo che si può chiamare 'filosofo democratico'».
Gramsci non si limita, come Bucharin, a segnalare le tendenze conservatrici del disomogeneo e «frammentario» senso comune tradizionale e ad affermare che scienza e arte sistemano, rispettivamente, i pensieri isolati in concetti rigorosi e i sentimenti confusi in immagini.
Egli avanza l'ipotesi che un <

Giuseppe Prestipino, docente di filosofia della storia all'Università di Siena


No hay comentarios: